Le competenze sociali al tempo del coronavirus: iniziano a declinare tra già tra i 30 e i 40 anni

Con l’età, aumenta l'empatia per il dolore fisico e si riduce quella per il dolore sociale. Cosa ci succede durante l’adolescenza e da bambini?

[9 Marzo 2020]

Quel che sta accadendo con i comportamenti di chi prende di assalto i treni per sfuggire alla quarantena del Coronavirus, elude i blocchi delle zone rosse per andare i vacanza in montagna o rifugiarsi nella seconda casa al mare, oppure i giovani che affollano pub e rave party ignorando qualsiasi raccomandazione, oltre a sollevare domande sull’atavica allergia alle regole dell’Italiano medio (che però in una buona percentuale imporrebbe le sue regole agli altri con il manganello e l’olio di ricino), pone domande anche sul perché di questi comportamenti egoistici e irresponsabili di massa e, se può consolarci, la cosa non riguarda solo gli italiani.

Infatti, secondo Horizon, il magazine Ue dedicato a ricerca e innovazione, «I programmi di formazione per migliorare le competenze sociali e cognitive delle persone dovrebbero essere rivolti alle persone tra i 30 e 40 anni, poiché queste abilità iniziano a declinare prima di quanto si pensasse».

Una convinzione che deriva da una serie di studi e progetti per raccogliere dati a lungo termine su come sociali si sviluppano – o si indeboliscono – le abilità e cosa possiamo fare per evitarlo.  Horizon fa notare che mentre esistono molti studi sui legami sociali tra gli esseri umani e nelle altre specie animali, difficilmente ci si occupa di come queste relazioni cambiano nel corso della vita o tra le generazioni.

Heather Ferguson, una psicologa cognitiva che insegna all’università britannica di Kent, sottolinea che «Quel che sappiamo finora proviene spesso da “frammenti isolati”. Questo significa che è stato difficile individuare esattamente quando avvengono i cambiamenti legati all’età in diverse attitudini sociali. Ma con società anziane, è sempre più essenziale sapere cosa significano questi cambiamenti per il nostro benessere. Una volta che le competenze sociali diminuiscono, le persone possono iniziare a sentirsi sole e depresse, il che può quindi avere un grande impatto sulla salute fisica».

La Ferguson è la leader dell’esteso progetto The Cognitive basis of Social Communication and Ageing (CogSoCoAGE) che conduce studi approfonditi su centinaia di persone di età compresa tra 10 e 90 anni per vedere come le abilità sociali cambiano nel tempo e spiega che «Fondamentalmente è una grande “batteria” di valutazioni che esamina diversi aspetti delle competenze sociali e cognitive in un modo molto diverso». Per farlo, il team di CogSoCoAGE utilizza sia test di laboratorio che le interazioni del mondo reale, che vanno dai questionari alle misurazioni dell’attività cerebrale e ai movimenti oculari utilizzando occhiali dotati di videocamere. Attualmente, per vedere se ci sono stati cambiamenti nel tempo, la Ferguson sta ripetendo i test con persone che li avevano eseguiti per la prima volta un paio di anni fa. Horizon evidenzia che «Uno dei principali obiettivi di CogSoCoAGE è valutare il legame, con l’età, tra le abilità sociali basate sulla capacità di inferire informazioni su altri – denominate teoria della mente – e le capacità cognitive più generali note come funzioni esecutive che implicano il controllo dei comportamenti».

Il team della Ferguson ha già scoperto che un declino di alcune funzioni cognitive sociali e correlate, come la memoria, la pianificazione e la capacità di inibire gli impulsi, inizia in realtà molto prima di quanto si pensi: verso la fine dei 30 anni e l’inizio dei 40, e non quando si invecchia. La ricercatrice dice che i risultati fin qui ottenuti suggeriscono che eventuali programmi formativi per migliorare le capacità cognitive o il benessere, dovrebbero iniziare prima della vecchiaia.

Monitorando i movimenti oculari, gli scienziati hanno scoperto che, durante le conversazioni individuali, gli adulti più anziani tendono a guardare meno in faccia l’altra persona e, invece, si guardano di più intorno, il che indica una difficoltà a interagire con informazioni sociali impegnative. La Ferguson ricorda che questo «E’ abbastanza importante, perché se non guardi in faccia qualcuno, ti stai perdendo un’enorme quantità di spunti sul suo significato, intenzioni ed emozioni». E aggiunge: «Gli adulti più anziani tendono a passare meno tempo a guardare le altre persone quando camminano quotidianamente, il che potrebbe renderle meno capaci di interagire con gli altri. Sono una sorta di sottili differenze nel modo in cui si vive la vita che possono avere un impatto enorme sulle opportunità di impegnarsi nell’interazione sociale».

Non sorprendentemente, i risultati ottenuti finora da CogSoCoAGE sono complessi: «Le attitudini sociali che dipendono meno dalla memoria o dalle capacità inibitorie, come la capacità di comprendere il punto di vista di qualcun altro, non vedono alcun declino con l’età – spiega ancora la Ferguson – mentre altre, come l’empatia per il dolore fisico, mostrano effettivamente un miglioramento. Al contrario, l’empatia per il dolore sociale si riduce con l’età».

I ricercatori hanno anche cercato di capire se è possibile “addestrare” le abilità cognitive necessarie a migliorare le abilità sociali e hanno scoperto che «qualsiasi miglioramento in un tipo di attività aveva una correlazione limitata con miglioramenti nelle altre».

Secondo la Ferguson «Alla fine, i risultati del progetto potrebbero portare a programmi e app più personalizzati per il benessere. Allo stesso tempo, dovrebbe essere tenuto presente che l’alterazione di un tipo di interazione sociale potrebbe anche avere effetti imprevisti sugli altri. In effetti, gli impatti negativi potrebbero derivare da misure come forzare una persona a guardare il viso di qualcun altro se lo trovano difficile quando interagiscono».

E poi c’è il tema preferito dagli adulti per scaricare su qualcun altro i loro comportamenti antisociali ed anti-civici: l’adolescenza, un periodo della vita durante il quale gli esseri umani fanno esperienze che potrebbero influenzare il loro comportamento sociale da adulti. La domanda è: le nostre esperienze da adolescenti possono influenzare anche le capacità sociali dei nostri figli?

E’ la domanda alla quale cerca di rispondere il team di ricercatori del progetto “Ghosts from the past: Consequences of Adolescent Peer Experiences across social contexts and generations” (CAPE) guidato da Tina Kretschmer, una scienziata comportamentale e sociale dell’università olandese di Groningen, che sta studiando l’impatto delle relazioni sociali degli adolescenti su quelle degli adulti. Intervistata da Horizon, la Kretschmer ha detto che l’idea di CAPE le è stata in parte ispirata dal programma televisivo The Secret Life of 4 Yearss che mostrava come diversi bambini, già a 4 anni, agiscono e si integrano socialmente in modo molto diverso e come formano le gerarchie, suggerendo che questo comportamento sociale è radicato anche prima dell’età prescolare.

La scienziata olandese ha cominciato a chiedersi quante interazioni sociali dei bambini potrebbero essere influenzate dai genitori o dalla genetica, e quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine e sottolinea: «Già a quell’età, vediamo che alcuni bambini sono outsider e alcuni sono più popolari, ma non sappiamo come avvenga».

Il lavoro del team della Kretschmer si basa sull’enorme mole di dati dello studio TRAILS, condotto dal 2001 da un team di ricercatori di diverse università olandesi e che sta monitorando a intervalli regolari una serie di informazioni sociali, psicologiche e biologiche su quelli che all’inizio erano oltre 2.500 ragazzini 11enni. Ora che hanno quasi 30 anni, questi ex adolescenti hanno iniziato ad avere figli, che sono stati inclusi nello studio di follow-on, TRAILS Next. CAPE sta svolgendo una serie di interviste e ctest interattivi con i partecipanti a questa iniziativa, esaminando non solo gli effetti intergenerazionali, ma anche il modo in cui le esperienze sociali dei genitori durante la loro adolescenza hanno influenzato le loro relazioni nel prosieguo della loro vita. Il che comprende anche lo studio del loro DNA per testare la trasmissione genetica di alcuni tratti. Inoltre, il team della Kretschmer sta progettando dei test che utilizzando l’identificazione a radiofrequenza, o tracker RFID, per esaminare come i bambini piccoli interagiscono tra loro durante una festa. Dati che, per esempio, potrebbero essere usati per capire quanto tempo i bambini trascorrono da soli, in coppia e in gruppi più grandi.

Attualmente il progetto CAPE sta raccogliendo ancora dati e i ricercatori assicurano che inizieranno ad analizzarli entro la fine dell’anno, ma la Kretschmer conclude evidenziando che «L’obiettivo finale sarà quello di rispondere a domande come: la predisposizione genetica all’ansia sociale aiuta a spiegare perché sia ​​un genitore che un figlio sono stati vittime di bullismo a scuola? O questo è più influenzato da un genitore che in precedenza aveva sperimentato il bullismo diventando iperprotettivo? Stiamo cercando di districarlo e scoprire cosa sta svolgendo quale ruolo. Sono così curiosa di vedere cosa sarà. Sarà più effetto della genetica o della genitorialità? E come funzionerà nell’insieme?»