Cave di Carrara, il caso del bacino estrattivo di Torano. Spunti per una pianificazione integrata

Più occupazione, tutela di fiumi e sorgenti, minor rischio alluvionale, miglioramento paesaggi-stico e dell’attrattiva turistica

[3 Maggio 2018]

Consapevole che il futuro di Carrara si decide oggi, Legambiente, prendendo come caso-studio il sottobacino di Torano, ha presentato un terzo contributo  “Il bacino estrattivo di Torano. Spunti per una pianificazione integrata”, alla redazione dei piani attuativi di bacino estrattivo, avanzando proposte che cambierebbero radicalmente le modalità di escavazione e lo stesso aspetto dei bacini marmiferi. Eccone una sintesi:

 

Considerato che in questo momento, con la redazione dei Piani attuativi dei bacini estrattivi (PABE) e del Regolamento degli agri marmiferi, e con le scelte sugli interventi prioritari del masterplan del Carrione, si sta decidendo il futuro assetto dei bacini montani, Legambiente ha consegnato agli enti il suo terzo contributo ai PABE, dopo i due presentati nel 2016. In esso propone spunti utili alla redazione dei PABE partendo da un’analisi approfondita (storica e ambientale) della situazione del sottobacino di Torano.

Mettendo in guardia dal rischio che ogni piano sia elaborato autonomamente, magari in conflitto con gli altri, propone quindi una visione strategica unitaria del futuro dei bacini montani, resa peraltro d’obbligo dal fatto che il masterplan del Carrione assegna al bacino montano il ruolo centrale di supplire all’inadeguatezza dell’alveo da Carrara al mare.

L’uso razionale della risorsa marmo richiede di ripristinare il rispetto della legalità, escludendo dalle aree estrattive le cave che producono quantità di detriti superiori al 75%, in violazione del PRAER. L’esame dei dati registrati alla pesa comunale dal 2005 a oggi mostra che le cave dell’alto bacino di Torano, producono sistematicamente oltre il 90% di detriti: sono cioè cave di carbonato. Sbriciolare le montagne per ricavare meno del 10% di blocchi non comporta solo un impatto ambientale e un bilancio costi-benefici inaccettabili, ma è anche vietato per legge. Legambiente propone pertanto la chiusura di queste cave, escludendo l’alto bacino dalle aree estrattive.

Con un ricco corredo fotografico, denuncia poi come, all’insaputa dei carraresi, il nostro paesaggio montano si stia trasformando in un paesaggio di vere e proprie discariche di terre di cava: grandi rilevati a sommità piatta, colmamento di cave a fossa, sepoltura di cave a gradoni.

Oltre alle osservazioni di carattere giuridico (si tratterebbe di discariche illegittime), segnala la perdita dell’effetto scenografico, talora grandioso, derivante dalla sepoltura di profonde cave a pozzo o di lunghe gradonate: una perdita paesaggistica, culturale e di attrattiva turistica, con le relative ricadute economiche.

Inoltre, considerato che anche le terre portate a valle devono pagare il tributo comunale, consentirne l’abbandono al monte comporterebbe un danno erariale di milioni di euro (visto che sono in gioco milioni di tonnellate di detriti). Legambiente, domandandosi come sia stato possibile consentirlo, se si sia trattato di una scelta politica dell’amministrazione o di un danno causato da funzionari infedeli, chiede una svolta radicale, vietando tali discariche e ordinandone la rimozione.

Il documento richiama poi l’inquinamento dei fiumi e delle sorgenti da marmettola e terre che si verifica ad ogni pioggia di rilievo: un grave problema ancora irrisolto solo perché non si è voluto affrontarlo. Documentando con foto i condotti carsici intercettati dalle cave e l’abbondanza di marmettola e terre in esse presenti (lasciate esposte al dilavamento meteorico), ne descrive gli impatti e ne propone le soluzioni: pulizia radicale di tutte le superfici di cava, vietare l’uso di materiali fini nella costruzione di rampe e prescriverne lo stoccaggio in contenitori a tenuta stagna.

Non si tratta di semplici proposte, visto che, a parere di Legambiente, le attuali autorizzazioni sarebbero illegittime, violando apertamente la normativa ambientale nazionale. Anzi, proprio la noncuranza del comune farebbe sì che il problema, anziché ridursi, si accresca continuamente. A supporto di questa affermazione Legambiente, utilizzando i dati della pesa comunale, mostra la progressiva riduzione delle terre portate a valle (dalle 600.000 t del 2005 alle 100.000 del 2016), cui corrisponde, ovviamente, l’aumento delle terre abbandonate al monte che si concretizza nella crescita delle discariche.

Ricorrendo a un interessante confronto tra i luoghi attuali e le corrispondenti foto dei primi del ’900, Legambiente documenta come un secolo fa i ravaneti avessero un’estensione e uno spessore ben superiore ad oggi (secondo i luoghi, da 20 a 100 metri di differenza) e come, dato l’uso di esplosivi, fossero costituiti da grandi scaglie: in nessuna foto storica sono visibili terre. Solo negli ultimi decenni, grazie alla nascita del mercato del carbonato, le scaglie sono state asportate dai ravaneti; le terre, però, non avendo un mercato, sono state lasciate sul posto, producendo degrado paesaggistico, inquinamento delle acque e aumento del rischio alluvionale.

Nel contesto delle imponenti trasformazioni territoriali avvenute nell’ultimo secolo, sarebbe però rimasto immutato il controllo pubblico, assente ieri come oggi. Si sarebbe cioè lasciata al cieco arbitrio degli impren­ditori di cava la libertà di gestire i bacini montani secondo le loro convenienze del momento, senza preoccuparsi degli effetti indotti sulla comunità.

Passando al rischio alluvionale, date le elevate pendenze dei versanti montani, la copertura boschiva quasi assente e le forti precipitazioni, il rischio è elevatissimo. A governare la trasformazione afflussi/deflussi e la formazione delle piene restano solo i ravaneti, col loro comportamento ambivalente. Da un lato, assorbendo le acque meteoriche e rallentandone lo scorrimento, riducono il rischio alluvionale; dall’altro, apportando agli alvei grandi quantità di detriti (in maniera graduale o catastrofica, con le colate detritiche), ne riducono la capacità idraulica, incrementando il rischio.

Poiché il fattore predisponente alle colate detritiche è il contenuto in terre (che, imbibite, funzionerebbero da lubrificante), Legambiente propone un intervento grandioso: smantellare tutti i ravaneti, eliminare le terre e ricostruirli con solo scaglie pulite. Oltre a ridurre i picchi di piena, i nuovi ravaneti-spugna, allungando grandemente i tempi di contatto delle acque con il substrato carsico, favorirebbero il rimpinguamento dell’acquifero (con acque limpide, data l’assenza di terre!), contrastando così le crisi idriche da siccità.

Interessante anche la proposta di rivegetarli e di stabilizzarli al piede con bastioni in blocchi o con muri a secco di scaglie, per migliorarne l’inserimento paesaggistico. L’intento è quello di superare l’immagine di un genius loci rozzo e devastatore (che non migliora certo l’attrattiva turistica) trasmessa dal degrado che caratterizza i ravaneti attuali, sostituendola con un’immagine che comunichi l’idea dell’opera titanica dell’uomo e lo spirito artistico infuso in ogni uso del marmo. Vengono respinti, invece, interventi ingannevoli di pura cosmesi ambientale, come il mascheramento di discariche di terre con bastioni in blocchi.

Vista la necessità di ripristinare il reticolo idrografico soffocato dalle strade di fondovalle e di rallentare il deflusso delle acque, viene proposto lo smantellamento della strada Sponda-Ravaccione (ricostruendola a una quota più elevata) per ripristinare un alveo rinaturalizzato.

I calcoli dimostrano che passando dall’attuale canale in cemento (stretto, rettilineo e liscio) all’al­veo naturale (largo, sinuoso e dotato di scabrezza) si otterrebbe una riduzione della velocità di ben 6-7 volte, con una sensibile riduzione del rischio alluvionale. Vi sarebbero quindi ottime ragioni idrauliche (oltreché ecolo­giche e paesaggistiche) per smantellare i canali in cemento e ripristinare gli alvei naturali montani.

Per quanto riguarda i costi degli interventi, le misure di pulizia delle cave non comporterebbero investimenti in macchinari, ma solo comportamenti lavorativi più responsabili. Gli interventi strutturali, invece (la ‘grande opera’ rappresentata dai ravaneti-spugna, il ripristino del reticolo idrografico, la rimozione delle discariche), comporterebbero costi elevati, da porre a carico di chi ha creato i problemi (cioè dell’intero comparto estrattivo), inserendo tali interventi come prescrizioni nelle autorizzazioni dei piani d’escavazione.

Il corposo documento di Legambiente si conclude con considerazioni di natura sociale, occupazionale e politica. Nonostante la chiusura delle cave di carbonato, l’attuazione delle proposte di Legambiente (comprendenti anche la rapida introduzione della gara pubblica per assegnare le concessioni di cava e l’obbligo di lavorare in loco almeno il 50% dei blocchi estratti) avrebbe un bilancio costi/benefici molto favorevole per la comunità carrarese: più occupazione, tutela di fiumi e sorgenti, minor rischio alluvionale, miglioramento paesaggistico e dell’attrattiva turistica.

di Legambiente Carrara