L’Elba scordata, l’Elba cambiata. Veleno scampato alla febbre Spagnola, non alla tubercolosi

L’ultima parte della saga familiare dei “Tarantini”: bettole e microbi e il pescatore di pianura

[30 Marzo 2020]

Prosegue la storia iniziata con “L’isola d’Elba al tempo della Spagnola. La storia di un’epidemia che 100 anni fa cambiò il destino di una famiglia”, seguita da “L’Elba dopo la febbre spagnola. La guerra, foche, tartarughe, tonni e pescecani”. Ecco la terza e ultima parte – con aggiornamento e note – della storia dei Tarantini e di Veleno. Buona lettura.

Tra bettole e microbi
Nella casa di un pescatore il tempo si misura in scuri e la luna è nemica. Ma a volte lo scuro del mare è così crudele di onde e di vento da spazzare via i pesci per un tempo così lungo che non scosta la miseria. Veleno si adattò a fare un lavoro di terra e a scavare pozzi d’acqua. L’acqua dolce gli attraversò la pelle e gli entrò nei polmoni trasformata in tubercolosi. Lui finì in un sanatorio continentale, la famiglia fu tagliata dalla disgrazia e uno dei due figli fu portato con ingannevole pietà in un dispensario di suore livornesi finché Jole, stanca di furti di regali da niente e impressionata da un pallore nevoso, non lo riportò sull’Isola poco prima del ritorno di Veleno.
Il marchio della TBC rimase sulla Velena e i Velenini fin dentro la scuola e gli unici che riaccolsero il capofamiglia furono i comunisti, che mascheravano l’imbarazzo nel buio della loro sezione, e i pescatori, convinti che la salsedine dell’aria e il puzzo di canfino della zaccarena avrebbero immunizzato uomini e pesci dai microbi invisibili. Fu finalmente un periodo di buoni scuri con casse di sardine a migliaia e di povero prezzo e festa di acciughe, con buon mercato. Arrivarono i pescatori siciliani e grandi gabbiani a migliaia, radenti il mare dietro i pescherecci panciuti che ritornavano scarichi dal mercato di Piombino. E i grandi uccelli cominciarono a occupare con i loro occhi inclementi e i ragli nuziali anche i tetti delle case, a saziare un appetito preistorico scoperchiando i coppi in cerca di rondoni, in attesa che gli anni ricchi in arrivo imbandissero una bella discarica.
Nelle due stanze dove si erano trasferiti Veleno, Jole e i tre figli, l’inverno era la stagione più dura. Le mani si spaccavano di freddo per la sciabica e i piedi si rompevano dentro gli stivali glaciali, ma gli zerri dello sciabichello e il pane nero saziavano di un cibo sempre uguale, in attesa di un Natale pantagruelico, ma sempre senza regali. La nostra vita di piccoli ladruncoli di aranci e mandarini andava avanti inconsapevole e dolce sulle gambe nude, fuori da pantaloni striminziti e calzettoni fino al ginocchio, in attesa che passassero grandine e neve e tornassero i fuochi di San Giovanni e il caldo senza scarpe dell’estate.
La domenica andavamo davanti a bettole e bar a vedere cazzottate tra uomini e a prendere scapaccioni senza clemenza. Due posti, oggi trasformati in ristoranti da signori che hanno conservato il vecchio nome da ritrovo di alcolizzati, ci attiravano per la confusione fumosa, le partite a padrone e sotto e le risse inevitabili. Nessuno si ricorda cosa fosse scritto sulle insegne, ma tutti li chiamavano la Secca di Gubbio e l’Affrichella, perché i pescatori rimanevano impigliati al vino cattivo come le reti a quei due scogli di mare aperto. E le mogli aspettavano a casa guardando il buio che calava con un funesto presentimento.
Fu reduce da uno di quegli incagliamenti che Veleno, dopo aver mangiato lumache in umido che Jole considerava calamite di disgrazia, schiantò il tavolino con un unico colpo e polverizzò con un altro la porta dell’unica camera dove ci eravamo rifugiati. E’ davanti a quell’uscio sbriciolato, a quella chiusura di legno che non fu mai ripristinata, che i carabinieri presero Veleno e lo portarono a smaltire la vergogna in gattabuia. Una richiesta di aiuto e una notte di galera che rimasero nel letto matrimoniale come un’ombra imperdonabile.
Volevo bene a quell’uomo atletico con il petto già pieno di peli bianchi, che mi portava a nuoto sulle sue grandi spalle di pugile, che correva veloce ed era capace di portare 200 chili sulla schiena dal molo del Pesce al porto lontano. E io ero il suo occhio diritto, la sua speranza tradita di avere un figlio dottore che abbandonasse quel mare salato,
Mi picchiò una sola volta e con uno schiaffo terribile. Mi sorprese a rubare un pacchetto di caramelle viola alla prugna dal banco del Bar Atlantic, scappai a casa con una corsa trafelata e la mia vergogna di ladro abituale e appena aprii la porta lui era già dentro che mi aspettava. La botta mi scaraventò attraverso la stanza fino al muro opposto e alla branda accostata, dove rimasi tramortito da quel che mi disse con la semplicità disarmante degli onesti e una voce senza rancore: “in questa casa non voglio ladri, anche se siamo poveri”.

Il pescatore di pianura
Ma l’Isola cambiava e arrivarono turisti con barche di lusso. I Signori costruirono ville sulle coste inviolate, le ragazze in bikini popolavano le spiagge di ghiaia per la nostra meraviglia e per lo scandalo fasullo dei vecchi che non staccavano il culo dalle panchine sul lungomare e gli occhi da quei triangoli di stoffa. Arrivò il benessere e qualche briciola toccò anche a noi, Jole cominciò ad andare a servizio dai Signori, fu la nostra salvezza e un affronto per Veleno che non tollerava che una donna sposata trafficasse in casa d’altri.
I pescatori erano sempre più lontani sul loro mare, lavoratori di orari senza divertimenti, fantasmi di paese che passavano dal letto al porto. E le bettole cominciarono a scacciarli per apparecchiare tovaglie bianche e posate tutte uguali. L’Isola di estate cominciò a non essere più loro e si trasformarono in fornitori di ristoranti, bersagli da fotografie e vicini di porto di yacht.
Per Veleno durò poco, lo tradì uno scuro primaverile di mari calmi e piogge ininterrotte che gli bucarono un polmone in modo irreparabile. Prima di ritornare in sanatorio aspettò che il porto fosse deserto, mi prese per mano e mi portò alla piccola zaccarena del suo destino. Raccattò la sua roba, tracciò una croce con il piede sulla coperta di legni salati e sputò una maledizione che non giunse mai a segno: il peschereccio naviga ancora trasformato in un panfilo pretenzioso e laccato.
Nel periodo della sua lunga malattia si trasformò in pescatore di uccellini maremmani, stendendo reti di pania per catturare i due cardellini del nostro affetto che si sbafò una gatta malandrina e crudele. Divenne un pessimo coltivatore di semi di fiori che si trasformavano in ortica e mi regalò un libro difficile che abbandonai dopo poche pagine. Solo molto più tardi l’ho ritrovato per caso, come un messaggio nella bottiglia della mia adolescenza e, aprendo quella copertina con due uomini in barca sotto un monte innevato, ho capito quel che Veleno non sapeva raccontarmi della sua sofferenza di pescatore scacciato dal mare della sua malattia. Quel libro, che qualcuno aveva letto a quell’affascinato analfabeta in interminabili pomeriggi di zanzare, era la “Montagna incantata” di Thomas Mann.
Tornò raramente a casa, ingegnandosi sempre, anche a pescare totani, gronchi, murene e mostelle con lenze e filaccioni che considerava pesca da ragazzi, essendo uomo da reti e da mare libero. Mise su un altro figlio che non conobbe quasi, che nacque con la paura della malattia e diventò un ragazzo massiccio e asmatico che oltrepassò la scuola con noncuranza, violò la proibizione paterna e diventò presto un pescatore di palamiti e di aragoste. Forse sarebbe fiero di vederlo oggi, capitano di una grande nave di ferro che pulisce il mare [1].
Io lo salutai per l’ultima volta, davanti a un ansimante e massiccio pullman bianco e rosso che lo portava al traghetto, alla gelata pianura grossetana di gennaio e al letto che lo avrebbe consumato in una settimana. Abbracciò mio fratello Mario e la sua ombrosità, forse annusando già in lui l’inquietudine e il boscaiolo che doveva diventare [2], baciò tutti e a me strinse solo la mano, come si fa con un uomo, consegnandomi un fardello impossibile da portare per i miei 14 anni.
Non sapeva che lo avevo già deluso abbandonando la scuola, che non sarei diventato il laureato dei suoi sogni e che avrei fatto, entro pochi anni uno dei mestieri che più temeva e non capiva.
“Sott’acqua ci devono sta’ i pesci, mica l’omini”. I pescatori sono gente di superficie, esplorano le profondità da una barca tenuta dalle onde, già un tuffo è una violazione, figurarsi un figlio che diventa sommozzatore, respira dal metallo, guarda le radici segrete dell’Isola, tocca il fondo con tubi di ferro e scava il fango con sorbone infernali, nuota con i pesci, sfida l’appetito dei pescecani e disturba i polpi collerici che sventagliano uova in tane segrete coperte di conchiglie [3].
E questa è un’altra storia.

Nota a termine
Quello che ho scritto è quasi tutto vero, ma poggia sulle fondamenta sabbiose dei ricordi di un bimbo, la nostalgia che confonde i tempi e i racconti dei due bugiardi più impudenti, candidi e convincenti che ho incontrato nella mia vita: Veleno e Lampo.

 

Aggiunta (Marzo 2020, al tempo del coronavirus):
Il mi’ babbo Galliano/Veleno è morto senza aver mai letto un libro, un giornale o una scritta sui muri, ma se sfogliava Tex Willer ti raccontava quella storia come se il fumetto lo avesse scritto lui. Non so se sapesse andare in bicicletta (credo di sì ma non gliene ho mai vista inforcare una), sicuramente non ha mai guidato una moto o una macchina in vita sua e in tutta la sua vita avrà fatto 10 telefonate con telefoni di bachelite a rotella che appartenevano ad altri. Fino praticamente alla sua morte vivevamo in una casa senza acqua, gabinetto, televisione e frigorifero. Era un uomo dell’800, nato nel ‘900, sfiorato più volte dalla morte che poi lo ha afferrato ancora giovane, vissuto pericolosamente in tempi pericolosi, aggrappandosi ad ogni flebile speranza e a una bandiera rossa. Il trasporto della sua salma all’Elba da Grosseto venne pagato dal Partito Comunista e il funerale dai mi’ zii Pezzettino e Veleno, perché noi non avevamo soldi per farlo. Per mesi abbiamo trovato alla porta della nostra casa, trafitta dal lutto e dalla miseria, una borsa con la spesa che ci mandavano in segreto i suoi compagni di un Partito che non c’è più, poveri quasi quanto noi. E’ scomparso mentre il mondo cambiava come probabilmente lui non avrebbe voluto. Se n’è andato via come un fantasma, già sconosciuto ai più giovani del paese, già dimenticato e scordato da molti, oggi – avrebbe 97 anni – è ormai scordato da tutti, anche da Jole che vive la sua vecchiaia in un eterno presente e in fulmini che rischiarano per un attimo un lontano passato. Veleno era di passaggio nel mondo, come tutti noi, un uomo che ha avuto una vita eccezionale che allora sembrava normale, che non ha lasciato traccia se non nei miei pallidi ricordi di uomo ormai anziano. Ma anche quel povero Cristo analfabeta, quel giovane boxer implacabile finito troppo presto rattrappito dalla malattia in un corpo di uccellino, in un letto di un sanatorio di Grosseto, è stato comunque un seminatore inconsapevole di mare, sapienze, amori e destini. Come tutti noi che viviamo e moriamo intrecciati nel tempo.

di Umberto Mazzantini

Da “Veleno vero – Storie, ricordi e bugie di una famiglia elbana”
“Terre Blu – Protagonisti, episodi e racconti di mare”
Le Balze 2005 (Quaderni di Legambiente)
A cura di Sebastiano Venneri

[1] Edoardo è tornato a fare il pescatore e il barcaiolo nel porto di Marciana Marina
[2] Mario, dopo una vita spericolata e gli ultimi anni di ascetico eremitaggio tra i boschi di Val di Cappone, è morto a 48 anni, la stessa età di Veleno, per precedenti problemi che hanno portato a complicazioni al fegato, come Veleno.
[3] Ho dovuto smettere di fare il sommozzatore all’inizio degli anni ’90 dopo che ho avuto un incidente a 42 metri di profondità al largo di Porto Azzurro. Veleno non aveva poi tutti i torti, anche se sarebbe stato stregato come me dalla bellezza del mare e delle sue creature, se avesse visto quel che ho avuto la fortuna di vedere sotto il mare dell’Elba e in giro per mari dell’Italia nei quali lui non si è mai bagnato.