L’isola d’Elba al tempo della Spagnola

La storia di un’epidemia che 100 anni fa cambiò il destino di una famiglia

[16 Marzo 2020]

Siamo tutti giustamente preoccupati per l’epidemia di Coronavirus COVID-19, ma i paurosi giorni che stiamo vivendo, reclusi nelle nostre case e assediati nell’Isola nella quale vivo,  fortunatamente non sono niente rispetto a un’altra epidemia, quella della Febbre Spagnola, che ormai 100 anni fa, falciò l’Isola d’Elba dopo aver travolto un’Italia già dissanguata dall’assurda carneficina della Prima Guerra Mondiale. Ecco, in un brandello di una storia scritta 15 anni fa, come quell’epidemia ha forgiato la mia famiglia, il suo carattere e il suo destino.

Giovanni era sul Vapore, appoggiato al povero baule delle sue cose, quando la vide riempire il mare per la prima volta. Sicuramente non se l’aspettava così l’isola della sua speranza. Una vecchia fortezza attaccata a uno scoglio, liscia e gialla al sole di gennaio, davanti a un golfo di palude e di saline sdentate, separata altezzosamente da una riga di mare dall’Elba ricoperta di vigne costruite sui sassi che risalivano i monti viola d’inverno. E intorno, fino a espugnare la vecchia città, le ciminiere fumanti di altiforni, le case basse degli operai e la solita miseria di cui i poveri non riescono a fare a meno. Non so dove fosse nato mio nonno, né ho mai saputo come sia morto, se non nell’eroica favola del mi’ babbo che ne raccontava la sparizione in un bombardamento tedesco al quale sicuramente scampò. Dal cognome che porto so che era un toscano, probabilmente con sangue fiorentino, che aveva trascinato con sé fino a quel canale di acqua salata e a qui vecchi mattoni la sua giovane sposa livornese, dal nome antico e rassicurante di Consilia.

Venivano da Taranto, un altro porto di mare trasformato in fabbrica e città di ferro e fuliggine. Un viaggio lontanissimo di ferrovie assolate di ulivi, un’andata e ritorno senza spiegazioni se non di una casa finalmente sicura per farci una famiglia senza fame. Sarà forse per questo, per porre fine al loro girovagare di darsene e ciminiere, che Giovanni aprì banco al mercato vecchio e diede inizio a una stirpe di imbroglioni favolosi, mercanti di pesce, cacciatori di balene arenate e pescatori e che la razza prese il nome di “Tarantini” dal soprannome ovvio che la lingua tagliente dei feraiesi affibbiò subito al forestiero.

E la stirpe crebbe presto a otto figli maschi, grazie al vino che scaldava il letto e al pane che non mancava, fino a che l’ombra della febbre spagnola non attraversò l’Europa seguendo la guerra, scavalcando il mare sullo stesso lento vapore del loro arrivo. Si abbatté sull’isola e ne divorò sei, portandosi via la tiepida fede di mio nonno e consegnandolo per sempre all’Anarchia e all’odio per il prete che, per non patire freddo e sporcarsi la tonaca nera, aveva negato il battesimo a un piccolo morente in una notte di pioggia. Di quel periodo di morte rimase solo la disperazione di mia nonna e la sua follia, che fu scambiata per sopportazione così leggendaria delle furie violente del marito da essere venerata come santità. Un ricordo di bontà così indelebile da finire più tardi tatuata, tra ancore, velieri, pescispada e cuori trafitti da qualche sirena da casino, sui muscoli dei tre figli superstiti.

La febbre spagnola cambiò anche il destino di mio padre, venuto al mondo dopo che gli altri fratelli erano crepati. Era il più piccolo di tutti i Tarantini che si erano salvati in via dell’Amore, tra le case di panni stesi che salgono le scalinate verso le fortezze principesche, a un passo dalla darsena e dalla torre crudele dove impazzì Passanante, vicino al banco del pesce che tenevano al mercato.

I sei bimbi furono arsi così rapidamente dalla spagnola, la disperazione e lo sconforto così grandi, la confusione dei lutti e dei funerali tanto insopportabile, che i Tarantini persero il tempo, i numeri, le parole e il senno. La politica attraversò una porta dalla quale raramente era passata e i nomi cominciarono a cambiare, a far prendere alle vite un’ingannevole forma di destino.
Così il mi’ babbo si trovò a credere per tutta la breve vita di essere nato in un giorno che non era il suo e festeggiava per sé il compleanno di un fratello morto e sconosciuto, i cui riccioli biondi tornavano però nei suoi ricordi e nei suoi racconti di uomo calvo. Forse fu per questo che Galliano venne consegnato da subito all’analfabetismo, ad una vita da gatto selvatico e al sol dell’avvenire. E forse fu per questo che non usò mai quel nome da hidalgo spagnolo, se non nella dozzina di firme malferme da bimbo che imparò a fare a quarant’anni suonati. In cambio gli venne dato un soprannome temibile e senza antidoto alcuno. Veleno.

I Tarantini avevano la passione per i nomi strani e altezzosi. Albino ed Eugenio andarono a scuola e mischiarono il pesce pescato dagli altri con i soldi guadagnati da loro. Galliano imparò invece la matematica delle stadere, ma alle lettere dell’alfabeto preferì la pesca dei granchi verdi e molli che invadevano le saline pazzi d’amore o lo zolfo che bruciava sotto gli alberi per far cadere i passeri addormentati. Ma nessun Tarantino scampò alla passione degli isolani per annullare i battesimi del prete e dell’anagrafe con quelli più duraturi guadagnati nelle bettole e nelle risse fra briachi. Galliano diventò Veleno per la violenza imprevedibile e letale di chi prende fuoco nell’acqua. Albino fu chiamato Pezzettino perché nacque tanto piccolo che non credevano fosse un bimbo, ma una miniatura così fragile che non avrebbe superato il tragitto tra gli stracci del parto e le mammelle di Consilia. Ereditò il banco del pesce al mercato vecchio, sposò e amò una donna piccina e vistosa con una roca voce di tuono e la passione per il commercio, bravissima a spacciare per una prelibata freschezza un totano che si era scordato il sapore dell’acqua salata. Conservò quel soprannome da neonato anche nell’alcova e diventò un uomo miope, ricco e imponente finché la vecchiaia non lo curvò e gli tolse la vista.

Eugenio, che fu chiamato anche Umberto, si trasformò in Lampo per la sua corsa veloce e imprendibile, qualità che gli servirono per fuggire ai creditori e districarsi nei suoi imbrogli di elegante venditore di pesce all’ingrosso, finché la vita non lo raggiunse con un tracollo del mercato delle acciughe e una moglie veneta, più vecchia di lui e così prudente da mettergli paura. I tre fratelli diventarono una specie di proverbio portoferraiese: “Se ti do un Pezzettino di Veleno, muori in un Lampo”.
Lampo e Pezzettino morirono vecchi, in letti di ospedale, col rimpianto di non aver avuto figli. Veleno lasciò presto la vita e quattro figli maschi, l’unica eredità per una moglie ancora giovane che non sapeva che farne di tanta splendente miseria.

di Umberto Mazzantini

Da “Veleno vero – Storie, ricordi e bugie di una famiglia elbana”
“Terre Blu – Protagonisti, episodi e racconti di mare”
Le Balze 2005 (Quaderni di Legambiente)
A cura di Sebastiano Venneri