I legami tra inquinamento atmosferico e coronavirus, spiegati da Legambiente

Smog e coronavirus. Due nemici invisibili della nostra salute che sono stati protagonisti di discussioni, a volte un po’ oziose, altre di altissimo livello scientifico, su legami supposti o provati, effetti e cause. E così si è passati dalle foto satellitari delle grandi aree urbane cinesi libere da inquinanti, a quelle della pianura padana, a rivelare in modo quasi consolatorio come, mentre l’epidemia dilagava, il lockdown producesse l’effetto collaterale di liberare l’aria dal suo velo caliginoso e carico di inquinanti, fino a chiedersi un po’ cinicamente se le morti evitate grazie all’aria più pulita potessero mitigare il bilancio funesto della Covid-19. Spesso senza valutare se gli effetti più visibili mostrati da quelle foto fossero realmente un risultato del blocco del traffico piuttosto che del ricambio d’aria causata dal normale (per la stagione) transito delle perturbazioni atmosferiche.

La verità è che il lockdown ha effettivamente determinato una drastica riduzione dell’inquinamento da traffico, evidenziata soprattutto dalle concentrazioni di NOx, tipicamente associati alla combustione che avviene nei motori diesel, mentre per quanto riguarda le temibili polveri sottili le variazioni osservate sono risultate non puntualmente misurabili, a ragione della variabile meteorologica, ma complessivamente valutate in un abbattimento nell’ordine del 20-30% rispetto ai dati medi attesi del periodo, un dato coerente con le riduzione prevedibili secondo le stime di fonte emissiva sviluppate da Ispra (vedi grafico), per le quali il trasporto stradale, di persone e merci, determina un contributo pari a circa un terzo della formazione di particolato, primario (allo scarico) e secondario (esito di processi di chimica atmosferica).

Nella formazione di particolato infatti, oltre al traffico e alle emissioni industriali (direttamente limitate dal lockdown) entrano anche altre fonti, in particolare le emissioni da riscaldamento e, soprattutto in Pianura Padana, quelle da allevamenti intensivi, che ovviamente non risentono delle limitazioni imposte ad altre attività produttive e agli spostamenti. E proprio le emissioni da allevamenti intensivi hanno determinato, con gli spandimenti di liquami a ridosso della stagione delle semine, prolungati ristagni di inquinamento mentre andava in scena il blocco degli spostamenti, nelle terre padane in cui si concentra la gran parte dei capi allevati in Italia, oltre alla gran parte dei casi di contagio irradiati dai focolai infettivi in Lombardia e Veneto.

È stata questa coincidenza ad accendere la spia del sospetto circa una possibile correlazione tra distribuzione dell’epidemia e inquinamento atmosferico: e una relazione, indiretta, sicuramente esiste, giacché il maggiore inquinamento della Pianura Padana corrisponde ad una maggiore densità di popolazione e di attività economiche e scambi commerciali proiettati sulla scala globale, fattori questi sicuramente favorevoli all’innesco e alla propagazione epidemica, e come tale ‘confondenti’ rispetto alla relazione diretta.

Fin da subito, sulla base di evidenze derivate da altri agenti di contagio diversi da coronavirus, si è fatta strada l’ipotesi di un ruolo del particolato sospeso come vettore di contagio, attraverso l’azione fisica di adesione e trasporto di particelle virali, meccanismo noto per altri patogeni. Tale ipotesi, supportata anche dalla individuazione di Rna del coronavirus su campioni di particolato filtrato, non ha ricevuto fino ad ora riscontri effettivi: il contagio, per quanto ne sappiamo, avviene esclusivamente per contatto interpersonale diretto o a breve distanza, e non risulta verosimile che il virione conservi la sua integrità e la sua infettività se intercettato e trasportato a lunga distanza dal particolato sospeso.

L’altra ipotesi, allo stato decisamente più plausibile, è che l’esposizione prolungata di una popolazione ad elevati livelli di inquinamento la renda più fragile e suscettibile all’azione di agenti infettivi delle vie respiratorie, come quello della Covid-19. Occorreranno studi approfonditi e verifiche su dati depurati da agenti confondenti per poter verificare questa ipotesi e desumere un eventuale fattore di correlazione che permetta di quantificare l’effetto di uno o più inquinanti sulla severità dell’affezione, una volta contratta la malattia.

Di sicuro gli studi fin qui proposti, e a cui i mass media hanno offerto una visibilità anche eccessiva (trattandosi quasi sempre di manoscritti preliminari, non ancora sottoposti a revisione tra pari), sono ancora molto lontani dal suffragare e quantificare tale ipotesi che però, ripetiamo, è decisamente verosimile e meritevole di essere indagata in modo approfondito: gli effetti dell’inquinamento sulla salute sono ampiamente riconosciuti e validamente supportati, tanto che si stima che a questa causa sia riconducibile un dato nell’ordine di 3 milioni di morti premature all’anno.

Possiamo però affermare che non è l’inquinamento all’origine del forte eccesso di casi e di mortalità da Covid-19 registrato in Lombardia rispetto a regioni confinanti altrettanto inquinate. Gli oltre 15000 morti da Covid-19 (e ormai sappiamo che si tratta di un dato tragicamente sottostimato) non hanno a che fare con il fatto che in Lombardia ci sia un’aria sporca e insalubre (ciò che è, a prescindere), ma con l’esplodere di focolai infettivi non adeguatamente contenuti o prevenuti dal sistema sanitario di questa regione.

Che ciò sia avvenuto per effetto di una tragica ed incompresa fatalità, per una impreparazione dei sistemi di vigilanza epidemiologica, per una sottovalutazione da parte delle istituzioni sanitarie, o per il combinato disposto di tutto ciò, saranno altri a stabilirlo, così come a valutare le responsabilità penalmente rilevanti dell’accaduto.

Ma per non gettare al vento il drammatico evento e il bilancio di dolore e di danni dell’epidemia, occorre un’analisi serrata dei punti di grave debolezza di un sistema sanitario che non ha lavorato sulla ‘preparedness’ rispetto ad eventi di tale, pervasiva, gravità, e che ha smantellato, per inseguire altre supposte priorità e per cieca ideologia, il sistema della medicina territoriale e preventiva, l’unico in grado di mantenere operative e vigili le ‘antenne’ della vigilanza epidemiologica, perseguendo lo scopo per cui esiste una sanità pubblica: custodire il buono stato di salute di una popolazione.

È l’infrastruttura sanitaria pubblica la priorità per la ripresa post epidemia. E questa infrastruttura deve essere fortemente integrata con la prevenzione ambientale attiva, la protezione civile e le politiche per l’adattamento e la resilienza agli effetti del cambiamento climatico, in primo luogo con le misure atte a contrastare gli inquinamenti e i comportamenti che li determinano e ne aggravano gli effetti a carico della salute umana.

di Damiano Di Simine, comitato scientifico di Legambiente, per greenreport.it