La nuova alleanza tra scienza e ambiente

La conoscenza è l’unica opzione per trovare un equilibrio col pianeta, aumentando il nostro benessere

Giuseppe Novelli, genetista di gran vaglia e magnifico rettore dell’università “Tor Vergata” di Roma, mi informa che: «È stato firmato un accordo quadro di durata quinquennale tra BGI Dx (una controllata di BGI di Hong Kong, la più grande società di genomica del mondo) e Bioscience Genomics (spin-off tra Bioscience institute di San Marino e l’università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, promosso dal direttore del dipartimento di Biologia, prof.ssa Canini, e dal direttore del dipartimento di Medicina dei sistemi, prof. Lombardo). La firma dell’accordo è avvenuta in occasione del “Fifth Italy – China Innovation Forum”, presso il Politecnico di Milano. L’accordo quadro comporta il trasferimento di know-how tecnologico dalla Cina in Italia nel campo della bio-medicina e della sanità, e si distingue per il suo approccio innovativo». L’accordo, che vale poco meno di 6 milioni di euro, prevede che i cinesi mettano i soldi e le tecnologie e gli italiani il luogo fisico e il personale.

In questa notizia, solo in apparenza settoriale e minore, c’è la dimostrazione che il mondo è cambiato. E che i cambiamenti sono almeno in tre dimensioni.

Primo: il mondo è cambiato perché la scienza è ormai stabilmente al centro degli scambi internazionali di beni e di servizi ed è il motore di quell’economia che, non a caso, si chiama “economia della conoscenza” che è a sua volta parte maggioritaria dell’economia mondiale. In Italia qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia. Ma si potrebbe facilmente dimostrare che la cultura produce i due terzi della ricchezza mondiale. Davvero non è possibile trascurare “l’economia della conoscenza”.

Secondo: nella genomica, uno dei settori scientifici e tecnici più avanzati al mondo, alla frontiera, dunque, della conoscenza, c’è una società cinese. Non è il solo settore hi-tech in cui la Cina è leader. Basti ricordare che il paese asiatico è, ormai, il maggioro esportatore al mondo di beni ad alta tecnologia. Ma non sono da meno la Corea del Sud o Singapore, e una costellazione di un’altra mezza dozzina di nazioni. A dimostrazione che quelli che una volta chiamavamo paesi a economia emergente e, prima ancora, paesi in via di sviluppo dell’Asia orientale (ma non solo), sono ormai paesi “a economia emersa”, nel senso che competono alla pari che quelli che una volta chiamavamo “paesi occidentali”.

Terzo: l’accordo firmato tra l’impresa di Hong Kong e l’università romana comporta il trasferimento di know-how tecnologico dalla Cina in Italia. Non solo i paesi a “economia emersa” con i loro prodotti competono con i paesi di antica industrializzazione sui mercati hi-tech, ma producono tecnologie e conoscenze così innovative da poterli trasferire ai centri culturali più avanzati dell’Occidente. Un po’ come succedeva nel Medio Evo, quando il flusso di tecnologia tra Europa e Asia orientale era vistosamente asimmetrico, e per ogni prodotto innovativo trasferito dal nostro continente al paese del Dragone ce n’erano almeno venti che facevano il cammino opposto.

Questo, dunque, è il quadro. La conoscenza domina l’economia del pianeta. E l’economia della conoscenza sta ridisegnando la mappa della ricchezza e la geopolitica globale.

Gli effetti di questi cambiamenti sono evidenti. Così come i difetti. Mai, infatti, il mondo è stato così ricco (malgrado la crisi – che è soprattutto europea – ci faccia percepire qui da noi il contrario). Mai il mondo è stato così segnato dalla disuguaglianza.

La prospettiva politica è evidente: occorre creare una società democratica della conoscenza, in cui il sapere non è un fattore di esclusione, ma al contrario sia un fattore di inclusione sociale.

Una prospettiva niente affatto utopica, perché fondata sul carattere stesso della conoscenza. Un bene “più che non rivale”, perché quando più persone la utilizzano tanto più aumenta. Al contrario di beni, come il petrolio o il ferro, che sono alla base dell’economia industriale classica e che sono “rivali”, perché se usati diminuiscono.

La politica, dunque, deve restituire alla conoscenza il suo carattere di fondo: la “non rivalità”. O, per dirla con Francis Bacon, il grande filosofo e politico inglese del XVII secolo, la scienza non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma può e deve essere a vantaggio dell’intera umanità.

Ma, oltre che “non rivale” (anzi, “più che non rivale”) la conoscenza ha almeno altri due caratteri che la rendono utile (anzi, indispensabile) per affrontare il tema dominante del XXI secolo – il tema ambientale – e realizzare uno (anzi, lo) “sviluppo sostenibile”.

Il primo carattere è l’immaterialità. I beni ad alto tasso di conoscenza aggiunto, il cui valore di mercato è dato soprattutto dalla conoscenza che contengono, “fanno più con meno”, ovvero hanno bisogno di meno materia e di meno energia per assolvere a una medesima funzione. Certo, sarebbe illusorio e persino sciocco immaginare che l’immaterialità dei beni hi-tech risolva, da sola, il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Ma sarebbe anche illusorio e persino sciocco immaginare di risolverlo, quel problema, senza nuova conoscenza scientifica e innovazione tecnologica.

In breve e in maniera piuttosto rozza, possiamo dire che solo la conoscenza può aiutarci a risparmiare materia ed energia e a diminuire così (anche così) l’impatto umano sull’ambiente.

Ma la conoscenza,  scientifica e non solo scientifica, fa (può fare) di più. Ci aiuta ad avere una crescente consapevolezza – una “coscienza enorme” – di quella che il Club di Roma (non a caso, la comunità scientifica mobilitata da Aurelio Peccei) definì “i limiti della crescita”. E, dunque, ci indica la necessità di agire per contrastare l’attuale insostenibilità del modello di crescita. Di più, rende più facile sconfiggere i falsi idoli del consumismo e rende più probabile l’affermazione di valori che puntano al reale benessere dell’uomo. Gli antichi Greci la chiamavano eudemonia, ovvero il benessere – addirittura, la felicità – frutto della virtù e, non a caso, del sapere.

La conoscenza, dunque, è un’opzione – forse l’unica che abbiamo – per trovare un equilibrio con l’ambiente in cui viviamo aumentando e non diminuendo il benessere di cui godiamo.

Tutto sta (ma non è impresa da poco) a non renderla un “bene appropriabile” da questo o da quello, ma nel restituire l’altro suo naturale carattere: quello di “bene comune”. Ancora una volta la comunità scientifica ci indica una strada. È in atto, infatti, un’azione – è nato un vero e proprio movimento – per affermare una “open science”, una scienza aperta, che cammini su due gambe: “l’open access”, l’accesso libero e gratuito a tutta l’informazione scientifica disponibile, e gli “open data”, la condivisione, la più estesa possibile, dei dati scientifici e non.

Sulla base di questi presupposti, occorre che il movimento ambientalista e  la comunità scientifica vincano recenti e reciproche incomprensioni per costruire insieme una “nuova alleanza”, per un obiettivo che risponde ai valori antichi e comuni di entrambi: costruire una società democratica e sostenibile.

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