Perché (e in che misura) la sfida del Green new deal si gioca su ricerca e innovazione

Per sostenere la capacità di innovare è necessario ridurre il divario tecnologico tra paesi, chiamando in causa un rinnovato ruolo dell’intervento pubblico nella veste di “Stato imprenditore”

Fuori dai riflettori che nelle scorse settimane si sono accesi sulle numerose manifestazioni in difesa del clima globale, l’avvio di un percorso di azioni per contrastare l’innalzamento della temperatura terrestre sembrerebbe ormai segnato. La via – sull’onda delle recenti proposte dei democratici americani – è quella di un “Green new deal”, un grande piano di interventi volto a ridurre strutturalmente l’impatto dell’attività umana sul clima e per molti versi ispirato a quella straordinaria politica di investimento pubblico intrapresa dagli Stati Uniti per contrastare gli effetti della Grande Depressione del ’29. A fronte di quella che si ritiene una vera e propria “crisi climatica” – piuttosto che l’esito non meglio specificato di un “cambiamento climatico”, che continua ad alimentare molte delle polemiche negazioniste – l’obiettivo è diventato infatti quello di rendere compatibile crescita economica e stabilizzazione del riscaldamento globale, approdando gradualmente ad un nuovo modello di sviluppo.

Lo sforzo è più che ambizioso: non si tratta solo di porre vincoli alle emissioni di carbonio, stimolando – anche sotto la spinta di maggiori oneri per chi inquina – la riduzione dell’impiego di combustibili fossili attraverso l’innovazione che passa dalle tecnologie energetiche, ma di guidare una reale rivoluzione tecnologica, che trasformi completamente l’attuale paradigma della produzione e del consumo, consentendo l’emergere di nuove fonti di occupazione e benessere (Perez, 2016). Per capire tuttavia in che misura il Green new deal potrà essere fulcro delle politiche a favore del clima bisognerà entrare nel merito delle azioni concrete e del necessario coordinamento tra gli interventi operati dai diversi paesi.

L’approccio a un Green new deal, che da tempo esprime una visione più che compiuta dello sviluppo sostenibile (Unep, 2009), deve infatti necessariamente essere ricondotto a una dimensione globale, a tutt’oggi non priva di fattori di incertezza, prova ne sia il controverso esito degli accordi sul clima e le diffuse resistenze seguite alla riluttanza degli Stati Uniti. La questione appare d’altra parte ben presente allo stesso Ipcc, il prestigioso e autorevole gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, che nel proporre a fine 2018 un’edizione speciale del rapporto sullo stato del clima per richiamare l’urgenza di interventi più incisivi, riconosce come politiche formulate sulla base di necessità nazionali e mirate a promuovere lo sviluppo tecnologico dei singoli paesi potrebbero rivelarsi una leva molto efficace.

L’Ipcc sottolinea infatti come “i paesi considerano l’innovazione nel suo insieme e le tecnologie climatiche alla stregua di interessi nazionali mentre vedono la politica climatica in primo luogo come oggetto di un interesse globale” traendo da ciò la conseguenza che “la riformulazione di parte della politica climatica in termini di politica tecnologica o industriale dovrebbe pertanto contribuire a risolvere le difficoltà che continuano  affliggere i negoziati sugli obiettivi climatici”. Questa indicazione si rivela oltretutto ben più significativa di quanto non traspaia dal suo dichiarato valore “strumentale”.

Il motivo è più che evidente: se la capacità di innovare occupa un ruolo primario negli interventi di contrasto alla crisi climatica e se i paesi non ne sono adeguatamente dotati, sarà necessario colmare innanzitutto un divario tecnologico. I dati relativi ai brevetti collegati a tecnologie ambientali, che forniscono una misura dell’innovazione in questo ambito, sono più che eloquenti. Mentre da un lato è aumentata nel tempo la propensione a innovare in campo ambientale, dall’altro la capacità complessiva di collocarsi su questa direttrice risulta calibrata sulla dimensione di tutti i brevetti prodotti, ovvero sull’intero sistema di innovazione (Fig 1).

Ma tale differenziale trova a sua volta riscontro nella diversa misura degli investimenti in ricerca e sviluppo di ciascun Paese, che sono all’origine del processo innovativo (Cnr, relazione sulla Ricerca e innovazione, 2018) e che risultano tanto più attivati quanto più nel comparto industriale sono presenti settori tecnologicamente avanzati (Palma, 2019).

In sostanza, la transizione verso un modello di sviluppo a minore impatto ambientale e che favorisca anche una crescita duratura e di qualità non potrà prescindere dalla presenza di un adeguato “ecosistema di ricerca e innovazione”, che metta in grado ciascun Paese sia di produrre nuove tecnologie, sia di utilizzare al meglio quelle già disponibili, grazie a quella fondamentale “capacità di assorbimento” che deriva dal patrimonio di conoscenze scientifiche e tecnologiche preesistente; senza contare che, al di fuori di questa rotta, il tendenziale aumento della domanda di tecnologie “verdi” non tarderebbe a tradursi in crescenti importazioni dall’estero, creando tensioni dal lato dell’interscambio commerciale e frenando per questa via la crescita economica.

Sia ben inteso che sollecitare una “riconversione ecologica” dei sistemi produttivi stimolando gli investimenti con maggior impatto sul miglioramento della qualità dell’ambiente rimane un punto centrale, ed è importante che, attualmente, un attore di peso sullo scenario internazionale quale è l’Unione europea si stia facendo in qualche modo portavoce di questo disegno. Tuttavia dovrebbe essere altrettanto chiaro come tale strategia vada inquadrata in una lucida visione delle molte divergenze tuttora presenti tra i Paesi dell’area (Palma, 2014), tanto sul piano della struttura produttiva, quanto, conseguentemente, su quello tecnologico, chiamando in causa un rinnovato ruolo dell’intervento pubblico nella veste di uno “Stato imprenditore” capace di creare nuovi mercati e di consentire quel grande salto tecnologico che la “rivoluzione verde” richiede (Mazzucato, 2013).

Il lancio di una coraggiosa strategia industriale in questa chiave a livello europeo potrebbe perfino trasformarsi in uno stimolo ancor più significativo sul piano mondiale, considerata l’incessante avanzata dell’area asiatica (Cina in testa) e lo straordinario impulso che ha caratterizzato proprio gli investimenti pubblici in ricerca e innovazione nel corso degli ultimi anni in questa parte di mondo, collocandola in posizione di sorpasso rispetto al Vecchio continente.

Un passaggio, tra l’altro, tanto più auspicabile se si pensa alla straordinaria opportunità che da ciò’ potrebbe nascere per una concreta ed efficace revisione del sistema di regole e vincoli che continuano ad imbrigliare il governo delle politiche europee, rendendo sempre più difficile l’uscita di tutta l’Unione dal prolungato stallo della stagnazione economica.