Sette punti per fare crescere l’economia comportamentale nel mondo, secondo l’Ocse

In un poderoso rapporto la mappa globale degli sviluppi attuali, con l’Italia nella top ten

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. L’economia comportamentale è cresciuta parecchio, ampiamente riconosciuta a livello accademico nei dipartimenti delle università e a livello istituzionale, in modo crescente – per mezzo di enti, governi o fondazioni che ne fanno uso (o dicono di farlo) per disegnare politiche pubbliche più efficaci.

Proprio per questo motivo, arriva il momento in cui bisogna decidere cosa fare da grandi e a questo obiettivo sembra ispirato il poderoso rapporto dell’Ocse Behavioral insights and public policy (lessons from around the world), un ricco e dettagliato catalogo di casi studio, prima di tutto, ma anche una riflessione, o un tentativo di riflessione, sul dove sta andando l’approccio comportamentale applicato alla politica.

Le 400 pagine del rapporto, come detto, riassumono alcuni casi di applicazione del metodo comportamentale nei più diversi ambiti: tutela del consumatore, education, energia, ambiente, prodotti finanziari, salute e sicurezza, mercato del lavoro, erogazione di servizi pubblici, fisco, telecomunicazioni.

Ma l’aspetto forse più rilevante è proprio l’impianto dell’intero rapporto e il tentativo di sistematizzare un approccio o indicare la via per una standardizzazione dello stesso nel mondo del policy making.

L’Ocse, insieme alla London School of Economics e a ideas42, ha condotto un’inchiesta, tra le più di cento istituzioni che hanno adottato politiche ispirate all’approccio comportamentale, per cercare innanzitutto di cogliere alcuni spunti, pur con tutti i limiti di una metodologia basata su un questionario che, proprio come l’economia comportamentale insegna, presenta tutti i limiti della potenziale distorsione nelle risposte.

In ogni caso, alcune evidenze meritano di essere discusse. La prima concerne la metodologia utilizzata dalle istituzioni che adottano l’approccio comportamentale.

Come si evince da questo grafico, al primo posto ci sono gli Rct, i Randomized controlled trials: sono gli esperimenti controllati realizzati spesso con il contributo e la collaborazione di ricercatori ed esperti del mondo accademico. Al secondo posto, invece, c’è l’utilizzo dei risultati pubblicati in letteratura.

Come interpretare questo grafico?

Diciamo che la cosa più probabile è che, all’interno delle istituzioni che fanno uso dell’economia comportamentale, è possibile ci sia una distribuzione molto polarizzata: da un lato chi, ormai, ha consolidato questa metodologia. E dall’altro, invece, chi si affaccia per la prima volta ad essa.

I primi utilizzano gli esperimenti per validare un’ipotesi e produrre evidenza scientifica. I secondi, invece, mostrano curiosità e, legittimamente, cercano di prendere spunto da chi è già esperto in materia.

Se si guardano i paesi al mondo che più fanno utilizzo della metodologia comportamentale, quest’ipotesi di una netta distinzione viene rinforzata.

L’approccio comportamentale come strumento per l’implementazione di politiche pubbliche è ormai consolidato nei paesi anglosassoni, come mostra il Regno Unito con il Bit, ma anche l’Australia e il Canada. Viceversa, esso si va affermando in altri contesti con una crescita costante ma circospetta.

In generale, i vari governi ed enti dichiarano, tra i principali ostacoli all’adozione più strutturale dell’approccio comportamentale, un generale scetticismo nei confronti della metodologia. Che può sembrare una contraddizione in termine ma rivela, in realtà, buone notizie all’orizzonte, perché significa che la questione riguarda più una corretta informazione che delle difficoltà vere e proprie.

Infatti, non vengono menzionati né i costi né i dubbi di natura etica che, tradizionalmente, appaiono tra i principali caveat.

Il rapporto Behavioral insights and public policy prova a gettare il cuore oltre l’ostacolo, indicando alcuni punti di una road map per l’istituzionalizzazione dell’approccio comportamentale:

  • La necessità di dati di buona qualità è strategica per l’applicazione dell’economia comportamentale: viviamo nell’era della datizzazione, ma le statistiche vanno raccolte in modo sistematico e, soprattutto, analizzate da chi ha le competenze per farlo
  • Dati non vogliono dire evidenza: altro punto fondamentale. Gli esperimenti vanno progettati scientificamente, per garantire un’ampiezza significativa del campione e robustezza dei risultati.
  • Replicabilità per garantire che i risultati osservati siano corretti nello stesso contesto e nella stessa situazione: la cosiddetta validità interna di un esperimento
  • Considerare applicazioni che siano valide per una particolare popolazione ma non per l’intera popolazione: che significa favorire, in alcuni casi, la segmentazione, perché alcune spinte gentili funzionano solo in alcuni specifici contesti e su alcune persone ben precise
  • Condurre regolarmente un monitoraggio attento per identificare effetti di breve e di lungo periodo: uno dei temi rilevanti dell’economia comportamentale è valutare la persistenza dei cambiamenti e delle modifiche prodotte e gli effetti nel tempo di una politica
  • Pubblicare i risultati per affidabilità e trasparenza: il che significa rendere noti protocollo ed esito dei test, sia nel caso che un esperimento funzioni, sia nel caso che non produca i risultati attesi. La pubblicazione può assumere la forma di un articolo scientifico, ma anche di un rapporto istituzionale ad uso interno o esterno all’organizzazione
  • Essere più chiari sui reali costi di adottare l’approccio comportamentale: spesso l’uso di esperimenti viene percepito come a costo zero. Seppur si tratti di un’informazione abbastanza corretta, in realtà specificare i costi in qualunque caso può essere particolarmente efficace, soprattutto nei confronti di istituzioni che si mostrano scettiche nei confronti di una procedura sconosciuta. Insomma, anche un numero basso è meglio che l’unknown.

La strada dell’utilizzo dell’approccio comportamentale, a livello istituzionale, è ancora agli inizi, ma il rapporto dell’Ocse mostra che è tempo di fare the next step. Di crescere e consolidarsi, insomma, anche per evitare che uno strumento dalle grandi potenzialità si trasformi in una semplice moda passeggera quando, in realtà, può diventare una vera cultura del policy making.

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