[24/09/2009] News

A New York sul clima solo un piccolo passo (nella giusta direzione)

LIVORNO. L'impressione del summit climatico di New York è che i leader mondiali (non tutti e non tutti convintamente) abbiano tentato di saltare il fossato di incomprensioni e sospetti che li divide da un accordo alla Conferenza mondiale di Copenhagen, ma che gli impegni e le buone parole non siano riusciti a sbloccare l'impasse. Gli impegni concreti sono stati troppo scarsi (e forse in un giorno di dibattito non si poteva pretendere di più) per poter superare uno stallo negoziale nel quale, oltre ai pontieri ed ai gentiluomini armati di buona volontà, si stanno infilando anche demagoghi incendiari come Gheddafi.

Lo stesso segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, che ha certamente ottenuto un successo personale e ravvivato la sua immagine che molti dicevano troppo grigia e burocratica, alla fine ha dovuto ammettere: «Se al vertice non c'è stata la garanzia che otterremo l'accordo globale, oggi c'è stato certamente un passo avanti verso questo obiettivo globale».

Gli osservatori ed i media, come d'altronde ha fatto anche greenreport, si sono concentrati sulle proposte e le iniziative dei due più grandi emettitori di gas serra del pianeta: Usa e Cina, responsabili da sole del 40% dell'inquinamento mondiale. Un dato che Obama, ma anche Hu Jintao, sono riusciti quasi a far dimenticare, l'uno con il solito intervento appassionato che costruisce novità sulle macerie eco-scettiche di Bush (vedi altro pezzo del giornale di oggi link allegato), l'altro con la solita pragmatica flemma cinese (condita da un vorticoso giro di incontri che più che al clima puntava ad estendere e consolidare il business mondiale di Pechino)  che nasconde sia una politica che punta a far diventare la Repubblica popolare il riferimento dei Paesi in via di sviluppo a Copenhagen e per il post-Kyoto, sia la determinazione di un regime dittatoriale a non concedere nulla rispetto ai tassi di crescita e alla volontà di assumersi obblighi nazionali ma non vincolanti a livello internazionale.

Quel che resta del summit sono i 5 punti messi nero su bianco dall'Onu nel comunicato finale: «Il messaggio di questo vertice è chiaro, l'accordo di Copenaghen deve essere globale e garantire: Potenziamento delle azioni per aiutare i più vulnerabili e i più poveri nell'adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici; Ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni per i paesi industrializzati; Appropriate azioni di mitigazione nei Paesio in via di sviluppo, con il necessario supporto; Risorse finanziarie e tecnologiche ben più significative; Un'equa struttura di governance»

Ambientalisti e analisti hanno riconosciuto gli sforzi positivi dei leader del mondo, ma non nascondono la delusione per la mancanza di sostanza ed il timore che su queste basi generiche non si possa costruire un nuovo trattato per il dopo Kyoto.

Se il linguaggio è cambiato e la consapevolezza è aumentata ed è globalmente condivisa, i governi di tutto il mondo stentano a tradurre questo in azioni concrete per affrontare le difficoltà poste dall'applicazione di rigorose politiche contro la crisi globale climatica mentre nei loro Paesi sono alle prese con le ricadute economiche ed occupazionali (quando non sociali ed alimentari) della crisi finanziaria e di un modello economico impazzito ma che non sembra avere alternative pronte.

A New York il succedersi rapido del summit sul clima e dell'Assemblea generale dell'Onu, e poi il vertice del G20 a Pittsburgh, rischiano di creare un corto circuito politico-comunicativo, di essere tra loro contraddittori, di rendere la complessità e l'enormità dei compiti che il modo si trova davanti alla fine del primo decennio del nuovo secolo non leggibile ai cittadini che se ne dovranno assumere il peso con cambiamenti di consumi e modelli di vita e produzione, ed aliena ai miliardi di poveri che quel peso già lo portano sulle loro spalle.

Il rischio è che, di fronte a questa complicata e pericolante torre di Babele che ci siamo costruiti, resti solo la soluzione tecnologica-miracolistica o l'attesa fatalistica della catastrofe "pedagogica".

Agli ambientalisti non resta che aspettare Copenhagen e sperare che le parole si trasformino in fatti, quote di CO2, tagli obbligatori, risparmio energetico e di materie prime... e che i politici ed i governanti ascoltino davvero gli scienziati, tutti i giorni, e non solo per farsi scrivere i discorsi da leggere ai summit sul clima, per misurare il presente ed il futuro, lo spreco del consumismo e la disperazione della miseria, ma soprattutto la  speranza che non muore di un futuro più giusto e sicuro per gli uomini e il pianeta in cui vivono.

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