[12/10/2009] News

La Danimarca ad americani e canadesi: «Sul global warming seguite l'esempio dell'Ue»

LIVORNO. La Conferenza mondiale sul clima di Copenhagen di dicembre, che per la Danimarca si annunciava come la grande occasione di legare il suo nome e l'immagine della sua capitale ad un nuovo patto per salvare il pianeta, rischia di trasformarsi nell'incubo di un fallimento o di un miserevole compromesso. Per questo il ministro danese il clima e l'energia, Connie Hedegaard sta svolgendo una frenetica attività di pubbliche relazioni e di convincimento, rivolta soprattutto a statunitensi e canadesi, con un misto di blandizie e rimproveri.

In un'intervista concessa al The Globe and Mail dopo il sostanziale fallimento dei Climate change talks di Boangkok, la Hedegaard si sofferma su quello che si sta rivelando il principale ostacolo per raggiungere un accordo« L'inazione è il problema che deve essere risolto se si vuole riuscire a sostituire il Protocollo di Kyoto. E' tempo che i politici del Nord America comincino a prendere il tipo di misure politicamente rischiose per ridurre le emissioni di anidride carbonica che i loro omologhi in Europa hanno già avviato. L'inazione qualcuno sta rendendo la vita difficile a molti politici per far prendere sul serio m la minaccia climatica nei loro collegi elettorali. A volte ci sono incomprensioni in Canada e Stati Uniti, che pensano che questo sia un pezzo della torta solo per i politici europei. Beh, mi permetto di assicurarli che non è così. Quando Paesi come il Canada decidono di non obbligare le imprese ad operare nell'ambito dei limiti più severi di CO2, provocano problemi per i politici che cercano di istituire i limiti massimi nei loro rispettivi paesi. Come faccio a convincere le imprese danesi che dovrebbero ridurre del 20% e forse il 30% le loro emissioni di CO2 entro il 2020, se i loro concorrenti americani e canadesi non fanno parte di questo? Non è così facile per i politici europei tenere insieme tutti i 27 Stati membri, se non vedono che i loro concorrenti faranno parte delle stesse regole».

L'accusa è durissima e precisa e mostra un gronde fastidio per i "trucchetti" usati a Bangkok dagli americani e la Hedegaard va oltre dicendo che questo «serve come un perfetto esempio del perché così poche persone credono che i Paesi partecipanti alla conferenza dell'Onu di dicembre saranno in grado di trovare un terreno comune su tipo di questioni in sospeso per la realizzazione di un accordo internazionale vincolante per sostituire il protocollo di Kyoto, che scadrà in due anni. Un fallimento per almeno il varo di un occordo quadro rappresenterà un'occasione perduta che potrebbe non ripresentarsi ancora per anni».

La ministra danese manda a dire che se a Copenhagen ci sarà un fallimento non sarà certo per colpa dei padroni di casa, ma a causa di chi non vuole cominciare a mettere «gli interessi del pianeta davanti ai loro interessi politici».

Nel mirino c'è soprattutto il riottoso Canada che fa da paravento all'inerzia Usa, ma questo atteggiamento rischia di rendere impossibile quel che sarà davvero cruciale a Copenhagen: un accordo tra le potenze mondiali, Usa, Cina, India ed Unione europea che se ci sarà si trascinerà dietro tutti gli altri.

Secondo la Hedegaard «La Cina, dice dice che sta facendo molto per dimostrare che il suo atteggiamento non è più "business as usual" come al solito. Quest'anno, per quel che ho capito, la Cina sarà il più grande esportatore mondiale di tecnologie energeticamente efficienti. Quest'anno sarà il più grande installatore del mondo di tecnologia solare ed eolica. In altre parole, questo è quel che stanno facendo. I cinesi hanno fissato degli obiettivi per le risorse rinnovabili, il 15% di tutta la produzione di energia entro il 2020, e, più recentemente, hanno detto che avrebbero fissato gli obiettivi per l'intensità di emissioni di CO2 per unità prodotta».

Anche L'india viene presentata ai nordamericani come esempio virtuoso: il ministro dell'ambiente indiano Jairam Ramesh ha detto che il suo Paese potrebbe presto prendere misure unilaterali volontarie per la lotta contro i cambiamenti climatici. «Non è molto, ma un inizio - dice la Hedegaard - Nel frattempo, Unione europea, Australia e Giappone hanno indicato che sono pronti ad aumentare i loro sforzi».

A chi le dice che gli Usa non firmeranno nessun accordo che li obblighi a quote di riduzione dei gas serra se i cinesi non faranno lo stesso, il ministro danese risponde che «L'Occidente deve avere un po' di pazienza con la Cina e le altre economie emergenti. Per ora, inducendole ad accettare di deviare dalle "standard practices" e a prendere parte ad altri sforzi di riduzione della CO2 come il cap and trade. Questo è nel migliore interesse del North American businesses. Ottenere un prezzo globale del carbonio è nel loro interesse. Se non lo capiscono, rischiano di rimanere indietro in quello che io credo sarà il grande campo di battaglia economico del XXI secolo. Spero quindi che in Nord America crescano il riconoscimento e la consapevolezza tra la gente che è nel loro interesse partecipare a questo quadro comune».

La padrona di casa del summit di Copenhagen ha spiegato anche quali sono i quattro elementi che dovrà contenere necessariamente qualsiasi accordo globale sul clima:«Un impegno vincolante da parte di tutte le nazioni partecipanti sui livelli di riduzione; aiuto finanziario ai paesi in via di sviluppo per sostenere i loro programmi di lotta climatica; misure per aiutare i Paesi ad adattarsi alle realtà del nuovo clima in un pianeta colpito dal global warmin; un accordo per aumentare l'uso e lo sviluppo delle tecnologie verdi. Perché questi quattro punti sono collegati tra loro. Nel mondo reale, non si può pensare di ottenerne uno senza avere anche il resto perché ci sono che dicono vi diamo questo però se ci date quell'altro».

Che è proprio quello che è successo in due anni durante la lunga e faticosa road map di incontri che da Bali porterà a dicembre a Copenhagen.

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