[23/12/2009] News

26/12/2004 – 26/12/2009: I 5 anni dallo tsunami e i molti passi in avanti da allora. Ma la vera sfida è climatica

FIRENZE. «Nel dicembre 2004, l'assenza di un efficace sistema internazionale di allerta contribuì ad una perdita di vite umane senza precedenti, allorché uno tsunami devastò un numero incalcolabile di comunità intorno all'oceano Indiano, e lasciò stordito il resto del mondo».

E' questo l'incipit del comunicato con cui la Noaa ricorda la triste ricorrenza dei 5 anni dallo tsunami che colpì dodici nazioni affacciate sull'oceano Indiano da oriente a occidente, partendo da un epicentro sismico situato a ovest dell'Indonesia. I dati relativi all'evento che, nel gennaio 2005, furono pubblicati dalla compagnia assicurativa elvetica Swiss Re nel suo annuale "Rapporto Sigma" sulle catastrofi naturali e/o di origine antropica parlavano di un numero di morti ancora maggiore (280.000) di quanto riportato dalla Noaa, dato a cui va aggiunto quello delle persone ferite (124.000) e gli oltre 1,5 milioni di senza-tetto.

I danni economici, secondo Swiss Re, ammontarono complessivamente a circa 14 miliardi di $, di cui solo 5 miliardi furono risarciti dalle compagnie assicurative. Si trattò, come si ricorderà, di uno degli eventi catastrofici più terribili del nostro tempo.

E, se responsabilità di natura "antropica" nell'evento non sono riscontrabili nel novero delle conseguenze delle emissioni (derivando lo tsunami da fenomeni sismici e non climatici), è comunque evidente che una rete di sistemi di allerta efficace e capillare avrebbe potuto contribuire a limitare i danni economici e la perdita di vite umane.

Secondo il condivisibile parere espresso dalla Noaa, la chiave per la salvezza da un evento del genere sta infatti «nella possibilità per le persone di ricevere allarmi (si intende "di ricevere effettivamente gli allarmi lanciati dalle autorità", nda) e nella volontà di agire tempestivamente per spostarsi all'interno o su posizioni rialzate».

Il sottosegretario al commercio e amministratore della Noaa, Jane Lubchenco, ha sostenuto che gli sforzi in questa direzione «non possono arrestarsi alla ricerca, allo sviluppo di tecnologie e alla produzione di previsioni: un avviso preventivo riuscito verte in ultima analisi sul comunicare il rischio con chiarezza, in modo che una popolazione preparata possa essere messa in grado di agire responsabilmente».

Volendo trovare un lato positivo in un disastro così terribile, possiamo citare il fatto che da allora la scienza, la tecnologia e la politica hanno fatto dei passi in avanti in direzione del miglioramento dei sistemi di allerta e dei veicoli di sensibilizzazione per le popolazioni: in questo senso, la Noaa comunica di aver ricevuto dal Governo centrale 90 milioni di $ dal 2004 per evolvere il sistema di allerta nazionale, e altri 135 milioni per «la ricerca, i sistemi di osservazione integrata, e per la mitigazione dei rischi attraverso (progetti di ) educazione e preparazione delle comunità, oltre che per un network globale per l'allarme tsunami e la relativa educazione, e per un programma di trasferimento tecnologico».

E' lampante come non solo le tecnologie, non solo il know-how, ma anche lo stesso investimento politico che attraverso la Noaa è svolto dal governo statunitense in direzione di ciò che è sostanzialmente da considerarsi come un... "adattamento" a condizioni estreme, potrà avere effetti di grande importanza in direzione anche di una più evoluta politica di adattamento ad altre catastrofi, stavolta non "naturali" come lo tsunami, ma attribuibili all'azione diretta dell'uomo. Ed è chiaro che, tra queste ipotetiche catastrofi, quelle associate a fenomeni di matrice climatica, e quindi al surriscaldamento globale, e quindi (almeno in parte) anche riferibili agli effetti delle emissioni umane, si trovano in prima linea.

Lo conferma anche il già citato rapporto Sigma della compagnia Swiss Re, che per il 2008 attestava che la perdita economica complessiva data dalla somma dei danni economici associati alle "catastrofi naturali" (categoria comprendente anche gli eventi meteorologici estremi) e agli eventi definiti "man-made"  (incidenti industriali, nei trasporti, esplosioni, crolli di infrastrutture e/o in miniere, attentati) aveva raggiunto il valore di circa 269 miliardi di dollari. Il costo complessivo sostenuto dagli assicuratori nei rami property è stato di 52,5 miliardi di $.

Di questi 52 miliardi, poco più di 44 miliardi sono stati rifusi per danni da eventi naturali, e meno di 8 miliardi per eventi man-made. Ma la spesa per eventi naturali è quasi completamente appannaggio delle tempeste (39 miliardi di $ rifusi), mentre eventi come i terremoti, nel corso del 2008, hanno richiesto risarcimenti per meno di 500 milioni di $.

E' chiaro, comunque, che nell'anno dello tsunami e in casi di grandi eventi sismici la conta dei danni si orienta, anche dal lato dei risarcimenti assicurativi (la cui analisi risente anche - e non poco - di una diversa tendenza all'assicurazione preventiva che caratterizza le aree a diversi gradi di sviluppo economico e sociale), maggiormente verso gli eventi naturali "veri e propri" (terremoti, tsunami, eruzioni, in primo luogo) a scapito di quelli sì "naturali" ma anche sempre più (e con sempre più probabilità) condizionati dalle emissioni antropiche dirette e indirette.

Ma l'incidenza economica degli eventi climatici si mantiene, comunque, sempre molto al di sopra di quella dei fenomeni catastrofici di altro tipo: ciò è confermato da quanto visibile nell'immagine, che indica la dinamica dei risarcimenti nel settore property nello specifico comparto Asia-Oceania dal 1970 al 2008, e mostra chiaramente come in qualsiasi anno, anche in quelli con eventi sismici più forti (tsunami compreso), i danni dati dalle tempeste e dalle alluvioni sono sempre stati superiori.

E' ovvio che le strade da percorrere, riguardo ai fenomeni naturali su cui l'attività antropica non ha conseguenze, sono diverse da quelli su cui le emissioni possono influire: per i primi, le misure necessarie vertono sostanzialmente intorno alla categoria dell' "adattamento", e le eventuali misure di "mitigazione" sono di matrice comunque legata ai modelli insediativi, urbanistici e di uso del territorio. Per i secondi, esiste comunque la possibilità di un'azione in direzione della "mitigazione" delle cause, oltre che della mitigazione "insediativa", "territoriale" e delle varie misure di "adattamento" alle conseguenze. Ma, allo stato attuale, dopo la fine di Copenhagen e in attesa della prossima conferenza (in cui - speriamo - non si deciderà ancora una volta di "decidere poi"), per ora la strada della "mitigazione delle cause" non sembra trovarsi davanti un futuro radioso.

Torna all'archivio