[30/12/2009] News toscana

Dell'alluvione e dell'assurdo ambientale dei vigneti a 'rittochino'

LIVORNO. L'alluvione nella bassa valle del Serchio, il ripristino dei terrazzamenti per la coltivazione della vite nel Chianti. Due notizie pubblicate il 28 dicembre da Repubblica apparentemente senza nesso, in realtà due aspetti della stessa medaglia. Ambedue i casi infatti raccontano del bisogno di cura e manutenzione del territorio. Attenzioni quasi perse perché la ricerca di redditività, in un mondo che ha scambiato la velocità della rete, sembra imporre velocità assurde ai ritmi della vita, della terra.

Da una parte dunque, la rottura degli argini per una piena neppure eccezionale, per un disordine insediativo palese (basta guardare un'immagine aerea delle nostre provincie), per la appropriazione privatistica del suolo, oltre la speculazione edilizia spinta ormai a impermeabilizzare le strade ma anche i giardini di casa propria, a scaricare acque piovane in strada o fogna.

Dall'altra il risalto mediatico dato alla notizia di un ritorno ad una sistemazione agraria che fino a 40 anni fa era la norma, che la volontà di lavorare con le macchine, abbattere il costo del lavoro, elevare le rese per ettaro e quindi rendere più redditivo a breve l'investimento aveva travolto.

Eppure, in Toscana, dell'assurdo ambientale delle coltivazioni a "rittochino" che favorisce il dilavamento superficiale e la rapida discesa a valle delle acque, quindi dissesti ed alluvioni, si discuteva già nella seconda metà del settecento e poi nell'Accademia dei Georgofili per concludere che bisognava adottare soluzioni a "girapoggio" con muri a secco e ciglionature.

Cioè, quello che si vuole evidenziare è che la fretta della redditività ha trasformato in peggio il paesaggio, ha reso il territorio più fragile, che è fallace rincorrere la redditività a breve della terra come se si trattasse di speculare in borsa. In altre parole, bisogna sperare che questa iniziativa di ricostituzione delle ciglionature e dei muri a secco promossa da un imprenditore non sia occasione per cogliere finanziamenti o "qualificare il prodotto" per venderlo ad un prezzo migliore.

Bisogna auspicare che i piani di sviluppo agricoli regionali scelgano e selezionino gli interventi e finanzino questi soprattutto in quelle aree dove economie agricole deboli o da ricostituire abbisognano di incentivazioni e non già dove le multinazionali hanno lucrato in passato per poi fare un prodotto ormai troppo simile a se stesso anche in territorio diversi.

Tutto questo infine, se relazionato ad un recente articolo di Francesco Erbani apparso su La Repubblica del 18 dicembre, alle vicende di chi le trasformazioni del territorio agrario e del paesaggio le praticava da studente della facoltà di architettura alla fine degli anni settanta, indagando non solo il paesaggio, la sua immagine, ma tutta quella serie di rapporti economici e sociali che sono alla base della sua produzione, fa pensare alla assurda parabola della formazione culturale e professionale di tecnici, agli architetti ( ma non solo questi) che oggi rincorrono il "glamour" delle riviste patinate di architettura già alle prime giornate di vita in facoltà.

Qualcuno potrà pensare che queste parole siano nostalgia, in realtà il tentativo è quello di provocare, di instillare qualche dubbio e perché no qualche pentimento, soprattutto a coloro che nelle facoltà o per esperienze professionali hanno ceduto alle sirene della fama e della visibilità del progetto edilizio, oppure non saputo fare scuola come accaduto a qualche padre dell'urbanistica della seconda metà del secolo scorso.

Dopo di che ci sarebbe molto da discutere anche sulle assenze della politica, sulla progressiva decadenza di contenuti culturali e scientifici della politica.

Torna all'archivio