[04/02/2010] News

Copenhagen due mesi dopo

Lo scorso 18 dicembre la conferenza sui cambiamenti climatici di Copenhagen si concludeva con  un accordo duramente criticato dalla società civile internazionale e da diversi paesi in via di sviluppo. Promosso dal presidente americano Barack Obama, l'accordo di Copenhagen riconosce l'urgenza di contrastare i cambiamenti climatici e i rischi di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5°C , senza però fissare alcun limite vincolante ai gas serra e rinviando al 2010 il grosso delle decisioni. Invece di concordare riduzioni obbligatorie alle emissioni, il documento si limita nelle pagine finali a predisporre una griglia vuota che i singoli governi sono invitati a completare inserendo gli obiettivi e le misure che sono disposti ad adottare per il 2020.

Una sorta di regime volontario, che permetterebbe anche a paesi come gli Stati Uniti, che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, di salire sul carro della lotta internazionale ai cambiamenti climatici, senza l'incubo di dover sottostare ad obblighi troppo onerosi. Uno schema che tuttavia, in mancanza di ulteriori accordi, rischia di  trasformarsi in una catastrofe per il pianeta. Sono circa 55 i governi che al 31 gennaio scorso avevano ufficialmente aderito all'accordo, ognuno con il proprio target. Dal taglio del 20 per cento annunciato dall'Unione europea, al meno 4 per cento degli Stati Uniti, al + 3 per cento del Canada, i limiti indicati sono ampliamente al di sotto di quanto reputato necessario dalla comunità scientifica internazionale. Secondo la stessa Onu con le proposte ad oggi presentate il pianeta non avrebbe alcuna chance di rimanere sotto i livelli di sicurezza e la temperatura media globale si innalzerebbe rapidamente di oltre 3° C rispetto ai livelli dell'800.

E' anche per questo motivo che l'accordo non è mai stato riconosciuto come documento conclusivo della conferenza sul clima di Copenhagen. Stipulato nelle ore conclusive del vertice da Stati Uniti e dal gruppo delle economie emergenti composto da Cina, India, Brasile e Sudafrica, il documento è stato solo successivamente sottoposto agli altri 185 paesi membri della Conferenza, non riuscendo però ad ottenere il consenso unanime dell'assemblea, che ne ha semplicemente preso nota. Tra i maggiori oppositori si è schierato Tuvalu, il piccolo stato insulare dell'Oceano Pacifico che anche con un aumento di 2°C della temperatura globale, potrebbe scomparire a causa dell'innalzamento dei livelli del mare. Al suo fianco alcuni  paesi latinoamericani e in particolare il Venezuela e la Bolivia, che hanno duramente criticato le procedure poco democratiche impresse nei giorni finali ai negoziati sul clima.

Nelle settimane successive al vertice, a prendere le distanze dal documento sono stati anche alcuni dei suoi promotori. Il governo indiano ha ad esempio ritardato fino all'ultimo la comunicazione ufficiale della sua adesione, che doveva essere consegnata entro il 31 gennaio, e nella lettera  consegnata allo UNFCCC ha evitato di esprimere la volontà ad "associarsi" all'accordo, formula usata invece dagli Stati Uniti.  Stesso percorso quello intrapreso dal governo di Pechino, che oltre ad omettere la formula dell'"associazione" ha più volte messo in dubbio la stessa natura legale del testo. Altri paesi e tra questi la Russia e il Messico, due tra i maggiori emettitori mondiali di gas serra, hanno invece scelto di non consegnare, almeno fino ad ora, la propria adesione, mentre solo uno, la Bolivia, ha espressamente rifiutato l'accordo.

Al di là della scelta dei singoli stati è chiaro a tutti che l'accordo di Copenhagen non è che un passaggio verso forme necessariamente più vincolanti. L'obiettivo principale dei negoziati sul clima avviati a Montreal nel 2005 rimane infatti l'adozione di un accordo globale e comprensivo, in grado di sostituire il protocollo di Kyoto, che scade nel 2012, e di dare una risposta adeguata alla crisi climatica. Per evitare effetti irreversibili è necessario che i paesi industrializzati taglino entro il 2020 di almeno il 40 per cento le emissioni climalteranti, mentre le economie a rapida industrializzazione devono evitare che la loro crescita si traduca in un aumento eccessivo di gas serra. Il nuovo protocollo dovrà essere firmato entro la conferenza di Cancun, fissata per il prossimo novembre, e prevedere obblighi chiari anche sui finanziamenti necessari ai paesi in via di sviluppo per far fronte agli impatti del clima.

Accanto al contenuto dell'accordo sarà fondamentale salvaguardare anche la forma dei negoziati. Il tentativo messo in atto a Copenhagen è stato in fin dei conti quello di scavalcare l'approccio multilaterale delle trattative con un patto tra "grandi" sottoposto, a cose fatte, al resto dei paesi. Una sorta di riedizione della pratica della green room, la stanza verde della Wto (l'organizzazione mondiale sul commercio), dove i paesi industrializzati concludono accordi per poi presentarli in forma blindata e senza possibilità di emendamenti agli altri governi. La conferenza Onu sui cambiamenti climatici non può diventare una Wto sul clima e nemmeno un G20, spazio negoziale dove si riconosce l'emergere delle nuove potenze economiche del sud  escludendo però il resto dei paesi. Come dimostra il documento di Copenhagen, se mancano trasparenza e democraticità nelle procedure è difficile che le soluzioni prospettate siano delle vere soluzioni.

 

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