[28/07/2009] News

L'innovazione italiana che non c'è: né orientata né fine a se stessa

LIVORNO. La crisi economica ha indotto le imprese a scegliere e a mettere tra le priorità la sopravvivenza piuttosto che l'innovazione. E' quanto avviene in Italia e, anche se in maniera meno evidente, nel resto d'Europa, secondo quanto emerge da uno studio che l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr ha prodotto rielaborando i dati dell'ultima edizione di Innobarometer, ossia lo strumento utilizzato dall'Unione Europea per misurare il livello di innovazione dei paesi che la compongono.

In Italia, e in gran parte dei paesi europei, nei primi mesi dell'anno lo squilibrio tra la percentuali di imprese che hanno ridotto gli investimenti in innovazione e quelle che invece li hanno alimentati è netto: 24,7% rispetto a 9,8%, ovvero 16 punti di differenza. E sono solo quattro i Paesi in cui questo rapporto si inverte: Austria, Finlandia, Svezia e la Svizzera, che non fa parte dell'Unione, ma che è ugualmente considerata nell'indagine Innobarometer.

«Oggi l'innovazione non è in cima ai pensieri perché prima bisogna salvarsi» riassume Franco Locatelli dalle pagine del quotidiano di Confindustria, quindi prima si pensa a guarire dai morsi della crisi e poi si pensa agli investimenti per innovare.

Tutti paesi (tranne l'Austria) che nella classifica utilizzata nell'indagine Ue fanno parte del gruppo di testa, ovvero quello chiamato leader innovation, assieme a Danimarca, Germania e Regno Unito. L'Austria sta nel gruppo innovazione followers, assieme a Francia, Belgio, Irlanda, Luxemburgo e Olanda. Bisogna invece arrivare al terzo gruppo, quello definito moderate innovators per trovare l'Italia, che sta in compagnia di Cipro, Estonia, Solvenia, Repubblica Ceca, Norvegia, Portogallo, Spagna e Grecia.

L'Italia dunque non smentisce il suo tradizionale trend riguardo gli investimenti in innovazione e anziché divenire intraprendente per sfruttare il momento di crisi come opportunità per innovare, taglia gli investimenti ad essa destinati: con una percentuale che è superiore a quella dei paesi europei (26, 1% contro il 24,7%) così come è inferiore quella delle aziende che invece ci credono e nell'innovazione hanno investito , ovvero l'8,9% rispetto alla media del 9,8%.

Una reazione alla crisi che come scrive ancora Locatelli «non è drammatica» se paragonata con il 0trend europeo, ma che lo diventa perché «purtroppo per noi, gli elementi che contano sono due: il confronto con i nostri diretti concorrenti e il rapporto tra ciò che stiamo facendo e il gap di capacità innovativa che come sistema paese ci portiamo dietro da tempo».

Ora è evidente che quando si parla d'innovazione bisognerebbe anche ad andare a vedere di che tipo di innovazione si tratta, e che se non vi sono politiche di sostegno e di indirizzo l'innovazione fine a sé stessa può rappresentare senza dubbio una leva importante per la competitività delle imprese, ma non aiuta certo a mutare il livello economico del paese.

Considerato che come scrivono nelle premesse di un convegno promosso oggi dall'Enea per presentare il loro rapporto Energia Ambiente 2008, «le questioni dell'energia, dell'ambiente e del cambiamento climatico hanno acquisito nuovi caratteri nel quadro dell'attuale crisi economica» indirizzare le politiche dell'innovazione verso questo assunto potrebbe invece spostare in maniera significativa il modello economico attuale verso quella green economy che altrimenti rischia di diventare una frase di moda ma priva di alcun significato.

«Le tecnologie dell'energia sono, a questo riguardo, un punto di riferimento in un mondo in cui l'innovazione assume un ruolo sempre maggiore nella creazione di benessere» si legge ancora nella premessa di cui sopra, ma se la strada che si pensa di intraprendere è un percorso a ritroso, che vede come cardini l'energia nucleare e lo sfruttamento delle fonti fossili, ancorché accompagnate da tecnologie di mitigazione, leggi il Ccs accoppiato al carbone, il rischio è quello di spezzare il ramo sul quale siamo seduti.

«Non si tratta di interventi aggiuntivi, ma sostitutivi» per usare una frase di un ragionamento che fa oggi Guido Viale su La Repubblica relativamente a quello che potrebbe comportare rispettare gli impegni assunti nel recente G8 in merito ai cambiamenti climatici.

Si tratta cioè di ripensare l'attuale modello energetico e quindi economico, e «se- dice Viale- allo scoppio della seconda guerra mondiale Stati Uniti e Inghilterra riuscirono a riconvertire in pochi mesi il loro apparato industriale nella produzione di armi, la consapevolezza (che per ora manca) della sfida del clima dovrebbe spingere i nostri governanti a uno sforzo analogo».

Forse è la consapevolezza che manca, forse è il coraggio, o forse è la capacità di intraprendere un cammino altro da quello conosciuto e sperimentato, ma i segnali che quella è la strada cominciano ad essere sempre più presenti, a partire dagli Stati Uniti dove Obama sta portando avanti una battaglia per riconvertire non solo un apparato industriale, ma un intero paese verso una economia più sostenibile per il pianeta e per chi lo abiterà in futuro. Basterebbe crederci e seguire questi segnali, anziché perdurare pervicacemente su una strada che conduce solo ad un binario morto.

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