[13/04/2010] News

Il doppio gioco di Cindia tra Bonn e Boao, da Copenhagen a Cancun

LIVORNO. I primi Climate change talks conclusisi a Bonn hanno stabilito definitivamente una cosa: un accordo internazionale sul global warming per quest'anno è molto improbabile anche il segretario uscente dell'Unfccc, Yvo de Boer, ha ammesso che la Cop 16 dell'United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc) sarà solo l'ennesima tappa di un percorso che sembra allungarsi sempre di più, mentre i tempi per agire si accorciano. Ma ha anche detto: «Gli americani non vogliono un secondo round di Kyoto.E' molto probabile che da Cancun vedremo emergere due accordi».

De Boer ha ammesso che i colloqui sono di fatto  bloccati e gli impegni di riduzione delle emissioni che i Paesi hanno assunto finora sono scesi ben al di sotto di quel che sarebbe necessario per evitare gli effetti più catastrofici dei cambiamenti climatici: «Non sono affatto adeguati. I Paesi industrializzati devono aumentare il livello della loro ambizione».

Non la pensa così Jonathon Pershing, il capo dei negoziatori Usa a Bonn, secondo lui l'Accordo di Copenhagen «E' il trionfo dell'inclusività. I negoziati di Copenhagen hanno portato un pacchetto. Noi non siamo disposti a far andare avanti un processo nel quale alcuni elementi siano "addomesticati". Questo non è l'accordo che è stato raggiunto. Per giungere ad una soluzione ci vogliono dei compromessi». Gli americani probabilmente cominciano a sospettare dell'atteggiamento di Cina ed India che a Copenhagen firmano l'accordo con gli Usa e meno di 4 mesi dopo a Bonn si schierano con i Paesi in via di sviluppo che sostengono che quell'Accordo non è stato adottato dall'Onu e che non è in grado di evitare catastrofici cambiamenti climatici. Un diplomatico indiano ha detto al Guardian: «L'accordo di Copenaghen è un documento politico. Non può avere una vita propria e non è un documento autonomo. Ha il potenziale per contribuire a costruire un consenso, ma non può sostituire gli esiti formali del processo delle Nazioni Unite». E il G77 + Cina, un gruppo di 130 Paesi in via di sviluppo, a Bonn ha respinto il tentativo di adottare l'Accordo di Copenaghen come base per i futuri negoziati, facendo arrabbiare statunitensi, russi e giapponesi.

Ma per capire cosa passa per la testa di cinesi ed indiani probabilmente non bisogna guardare a Bonn, ma a quello che nelle stesse ore succedeva molto più lontano, nella provincia cinese dell'Hainan dove si è tenuta la conferenza annuale del Boao forum for Asia  (Bfa) che per tre giorni ha riunito 2.000 tra dirigenti politici, grandi imprese e scienziati che hanno discusso di "Una ripresa verde: le scelte realistiche dell'Asia per una crescita sostenibile". In casa dei cinesi i toni sono stati molto meno bellicosi di quelli usati per continuare ad accreditarsi con il G77. Il ministro indiano dell'ambiente, Jairam Ramesh, ha esaltato la stretta collaborazione tra India e Cina al summit di Copenaghen che ha portato anche ad un positivo cambiamento di clima nelle relazioni bilaterali ed ha detto che i due giganti asiatici «Stanno cooperando con molta attenzione nei negoziati sui cambiamenti climatici».

Ramesh, intervenendo nelle sessioni del forum dedicate a "Low Carbon Energy: Can Asia lead the world" e "China and India - Cooperation in 21st Century", ha annunciato che «L'India e la Cina hanno firmato un accordo lo scorso ottobre per una partnership sul  cambiamento climatico e stiamo cooperando a stretto contatto nei negoziati sul cambiamento climatico. India e Cina hanno lavorato in tandem al vertice di Copenaghen, nell'ambito del quadro del Bric (Brasile, Russia, India, Cina, ndr) e hanno contribuito a far emergere un accordo di clima dell'ultimo momento».

Non a caso al Boao Forum Ramesh ha ritirato fuori l'acronimo "Cindia" per indicare l'importanza della cooperazione tra i due Paesi più popolosi del pianeta dicendo che oltre agli elemento di competizione Cina ed India dovrebbero ricercare altre partnership e collaborazione e optare per soluzioni più pragmatiche.

Il vicepresidente cinese, Xi Jinping, ha assicurato che la Cina affronta «attivamente e seriamente» il global warming e che «Ogni Paese deve fare la sua parte nella lotta contro il cambiamento climatico, ed ogni Paese ha la sua parte di responsabilità nella sicurezza del nostro pianeta. Abbiamo partecipato nella maniera più risoluta e più attiva alle azioni internazionali destinate a far fronte ai cambiamenti climatici, rispettando il principio dell'Onu "responsabilità comuni ma differenziate"».

Poi il vicepresidente del Paese più inquinato ed inquinante del mondo ha rivendicato i meriti ambientali del suo governo: l'eliminazione di una grande quantità di produzioni obsolete nei settori più inquinanti ed energivori, come le centrali a carbone, i cementifici, le fabbriche chimiche e le cartiere. Xi ha rivendicato anche l'obiettivo volontario della Cina di ridurre entro il 2020 l'intensità delle sue emissioni di CO2 per unità di Pil dal 40% al 45% in rapporto ai livelli del 2005, di aumentare l'utilizzo di energie "non-fossili" fino al 15%  ed ha annunciato che «Nel corso dei prossimi 5 anni le misure tendenti a ridurre il consumo di energia permetteranno, da sole, di risparmiare 620 milioni di tonnellate di carbone standard, il che porterà ad una riduzione di 1,5 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica. La campagna lanciata dalla Cina, mirante ad accelerare la trasformazione del suo modello di crescita economica ed a ristrutturare la sua economia, rappresenta un contributo positivo alla lotta dell'Asia contro il cambiamento climatico nel mondo. Nel corso dei 4 anni terminati alla fine del 2009, la Cina, secondo più grande consumatore di energia nel mondo, ha ridotto del 14,38% il suo consumo di energia per unità di Pil e del 13,14% le sue emissioni di diossido di zolfo. La Cina è diventata un leader mondiale nello sviluppo di energie pulite, detenendo, alla fine del 2009, la più grande potenza idroelettrica installata e la più grande potenza elettro-nucleare in costruzione nel mondo».

Lontano da Bonn e dagli amici più poveri del G77 Xi Jinping ha spiegato il cuore asiatico della strategia cinese: «Noi dobbiamo, nello stesso tempo, attivare a fondo i contratti regionali e sub-regionali e i meccanismi di cooperazione in Asia al fine di promuovere lo sviluppo armonioso e sostenibile dell'Asia e di tutto il mondo. I Paesi asiatici devono continuare a rafforzare il coordinamento delle loro politiche macro-economiche e sviluppare vigorosamente la loro cooperazione nei settori del risparmio energetico, della riduzione delle emissioni, della protezione dell'ambiente e dello sviluppo delle nuove energie, al fine di pervenire ad una crescita sostenibile. Nessun Paese può fare gruppo a parte o riuscire ad affrontare da solo dei problemi così gravi come la crisi finanziaria, il cambiamento climatico e la sicurezza energetica e delle risorse naturali».

Affermazioni abbastanza strane, visto che la Cina partecipa attivamente a "gruppi" come il G77, Basic, Bric e molti altri, si accorda con gli Usa a Copenhagen e partecipa al G20 e propone un modello di sviluppo asiatico che è chiaramente concorrenziale (e più attraente per gli investitori) con le richieste dei Paesi meno sviluppati. Una contraddizione evidente alla quale Xi Jinping cerca di sfuggire con la solita richiesta (molto "occidentale" e stile G8) di «Eradicare la povertà per riuscire nella crescita economica equilibrata. La causa profonda del disequilibrio dell'economia mondiale è lo sviluppo fortemente ineguale tra il Nord e il Sud». Uno squilibrio che rischia di moltiplicarsi e frammentarsi ancora di più in un mondo multipolare, con le economie emergenti diventate ormai grandi potenze mondiali, ma che cercano di tenere ancora i piedi in troppe scarpe: da quelle di lusso italiane a Washington e Copenhagen, alle ciabatte sfondate dell'Africa e delle baracche del sudest asiatico.

Torna all'archivio