[23/04/2010] News

Main Street, Wall Street e altre amenità

LIVORNO. «In definitiva, non esiste una linea di demarcazione tra Main Street e Wall Street. O risorgeremo insieme o cadremo insieme come una sola nazione. Ed è per questo che esorto tutti voi a unirvi a me. Esorto tutti voi a unirvi a me, per unirsi a coloro che cercano di passare queste riforme di buon senso. E per quelli di voi che sono nel settore finanziario, vi invito a unirvi a me non solo perché è nell'interesse del vostro settore, ma anche perché è nell'interesse del vostro Paese».

Il presidente Obama chiude così il suo discorso sulla riforma di Wall Street, tenuto ieri nella sede della Cooper Union, a New York. Parole che appaiono di buon senso, grazie alla retorica funzionale a rendere tutti partecipi della sua battaglia. Una battaglia giusta, ma che non convince. Almeno noi. Non tanto nella parte tecnica che nemmeno commentiamo non essendo francamente in grado. Ma proprio nell'impostazione.

Innanzitutto ci domandiamo come gli Usa da soli possano pensare che riformando eventualmente Wall Street bonifichino anche la finanza mondiale. Perché se è certo che la crisi è nata laggiù non è assolutamente detto che la si risolva con il meccanismo contrario e soprattutto senza una governance mondiale.

Seconda cosa, ci pare che la linea di demarcazione tra Main Street (l'economia reale) e Wall Street (la finanza) esista ora più che mai. Basti vedere che nella sostanza la prima è in ginocchio mentre la seconda si è sostanzialmente ripresa. E visto anche che in generale le speculazioni (della finanza) sulle materie prime, per dirne una, stanno mettendo in crisi proprio l'economia reale. Con conseguenze ambientali e sociali evidentissime, anche se non da tutti comprese.

Per dirla schietta schietta, le speculazioni finanziarie sulle materie prime che annebbiamo completamente i dati sul loro reale stato di "salute", cosa del tutto normale in un modello capitalista dove si fa business proprio grazie all'asimmetria informativa, genera prezzi delle stesse totalmente al di fuori (nel bene come nel male) del loro valore effettivo. Se si pensa che alcune di loro, in teoria visto la loro importanza, non dovrebbero addirittura avere un prezzo tanto sono vitali per l'uomo, si capisce già la crisi ecologica.

Come del resto non è difficile capire come questi stessi prezzi alti mettano in crisi aziende che in questa fase oltretutto non ne hanno più (in termini di possibilità economiche) e che quindi saranno costrette giocoforza (come minimo) a ridimensionarsi. Che non vuol dire peraltro che l'ambiente ne beneficerà perché se il mercato certi prodotti li vuole, qualcuno in qualche modo glieli fornirà.

L'opzione zero non esiste in questo caso. Un aiuto per capire che cosa sta accadendo -e i pericoli di una green economy solo di facciata e non di un'economia ecologica che soppianti l'economia tout court - ci arriva, come al solito, non dal presente, ma dal passato, quando evidentemente senza l'esigenza del "tutto e subito" si aveva il tempo per analisi ponderate.

Scriveva il filosofo André Gorz circa quanto accadeva nella valle del Reno (ringraziamo Le monde dipolmatique per averlo ripubblicato) che «l'affollamento umano, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua hanno raggiunto un grado tale che l'industria chimica, per continuare a crescere o anche soltanto a funzionare, si vede costretta a filtrare i propri fumi e scarichi, ovvero a riprodurre delle condizioni e delle risorse che, finora, erano considerate «naturali» e gratuite.

Questa necessità di riprodurre l'ambiente inciderà in maniera evidente: bisogna investire sull'inquinamento, quindi accrescere la massa di capitali immobili; è necessario, poi, assicurare l'ammortamento (la riproduzione) degli impianti di depurazione; e il prodotto di questi ultimi (la proprietà relativa dell'aria e dell'acqua) non può essere venduto con profitto.
C'è, insomma, un aumento simultaneo del peso del capitale investito (della «composizione organica»), del costo di riproduzione di quest'ultimo, senza un corrispondente aumento delle vendite. Di conseguenza, delle due l'una: o il margine di profitto si abbassa, oppure il prezzo dei prodotti aumenta.

L'impresa cercherà evidentemente di alzare i suoi prezzi di vendita. Ma non ne uscirà fuori così facilmente: tutte le altre ditte inquinanti (cementifici, metallurgia, siderurgia, ecc.) cercheranno, anch'esse, di far pagare i propri prodotti più cari per il consumatore finale. Prendere in conto le esigenze ecologiche avrà infine questa conseguenza: i prezzi tenderanno ad aumentare più velocemente dei salari reali, dunque il potere d'acquisto del popolo sarà compresso e tutto avverrà come se il costo dell'inquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispongono le persone per comprare le merci».

Che succederà dunque? «La produzione di queste ultime - aggiungeva Gorz - tenderà quindi a stagnare o ad abbassarsi; ciò aggraverà la predisposizione alla recessione o alla crisi. E tale arretramento della crescita e della produzione che, in un altro sistema, sarebbe potuto essere un bene (meno automobili, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più corte, ecc.), avrà degli effetti completamente negativi; le produzioni inquinanti diventeranno dei beni di lusso, inaccessibili alla massa, senza smettere di essere alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze si approfondiranno; i poveri diventeranno relativamente più poveri e i ricchi più ricchi.
L'assunzione dei costi ecologici avrà, insomma, gli stessi effetti sociali ed economici della crisi petrolifera. E il capitalismo, lungi dal cedere alla crisi, la guiderà come ha sempre fatto: dei gruppi finanziari ben piazzati approfitteranno dei gruppi rivali per assorbirli a basso costo ed estendere il proprio dominio sull'economia. Il potere centrale rafforzerà il suo controllo sulla società: tecnocrati calcoleranno i livelli «ottimali» di inquinamento e produzione, promulgheranno regolamenti, estenderanno i domini della «vita programmata» e il campo di attività dei dispositivi di repressione. [...]».

Ebbene, era il 1974...e a proposito di quello che sembra un dibattito moderno - crescita/decrescita - sentite se non aveva già le idee piuttosto chiare: «i partigiani della crescita hanno ragione almeno su un punto: nel quadro dell'attuale società e dell'attuale modello di consumo, fondati sulla disuguaglianza, il privilegio e la ricerca del profitto, la non-crescita o la crescita negativa possono soltanto significare stagnazione, disoccupazione, crescita dello scarto che separa ricchi e poveri. Nel quadro dell'attuale modello di produzione, non è possibile limitare o bloccare la crescita ripartendo al contempo più equamente i beni disponibili. Finché si ragionerà all'interno di questa civiltà non egualitaria, la crescita apparirà alla massa delle persone come la promessa - per quanto completamente illusoria - che un giorno esse smetteranno di essere «sotto-privilegiate», e la non-crescita apparirà come la loro condanna alla mediocrità senza speranza. Perciò non è tanto la crescita che bisogna combattere quanto la mistificazione che essa comporta, la dinamica dei bisogni crescenti e continuamente frustrati sulla quale esse riposa, la competizione cui essa predispone incitando gli individui a voler innalzarsi, ciascuno, «al di sopra» degli altri. Il motto di questa società potrebbe essere: Ciò che è bene per tutti non vale niente. Tu sarai rispettabile solo se hai «meglio» degli altri. Ora, è l'inverso che bisogna affermare per rompere con l'ideologia della crescita: E' degno di te solo ciò che è bene per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né umilia alcuno. Possiamo essere più felici con meno opulenza, perché in una società senza privilegi non ci sono poveri».

Insomma, ci pare che avesse già detto tutto, o quasi e come sempre ricordiamo che non è vero che nessuno ha previsto le crisi in corso (economica, ambientale, sociale) non l'hanno prevista quelli che ci hanno portato alla crisi stessa, questa è la verità storica.

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