[26/04/2010] News

Il piano della Fiat non esonera dal richiedere una politica industriale

FIRENZE. Sul confuso vociare che si è fatto in questi mesi di crisi infinita a proposito della necessità di una politica industriale, si levano ora le trombe degli annunci all'Investor Day della Fiat. Lasciamo perdere i toni da giornalismo sportivo, con cui sono presentati i grandi "capitani d'industria" e grandi comunicatori come Sergio Marchionne (tanto più che i paragoni con la Juventus potrebbero essere imbarazzanti). La sostanza dell'annuncio è che Fiat ci prova davvero ad essere una delle grandi protagoniste del mercato globale dell'auto, nonostante qualche passo falso recente (leggi: Opel).

E questa è di per sé una buona notizia, perché in Fiat quella "i" (che sta per "italiana") rimane pesante: è la storia, la cultura, ma anche le conoscenze e le tecnologie di un'impresa che nessun cosmopolitismo di maniera può annacquare sino a fare scomparire. Sicuramente non si può dire che ciò che è bene per Fiat è necessariamente ed automaticamente bene per l'Italia (come un tempo si diceva di General Motors e degli Stati Uniti), ma è pur vero che la credibilità ed il prestigio del nostro Paese si giovano di una presenza industriale globale di rango, sia per qualità che per dimensioni. A maggior ragione se, come promette il piano Fiat, vi è la volontà di investire pesantemente sui siti produttivi del nostro Paese.

Noi - ha detto per altro Marchionne (Nella foto) - "facciamo da soli". L'ambizioso piano presentato è "solo un impegno della Fiat", che allo Stato non chiede assistenza e finanziamenti. Il piano della Fiat ci esonera dunque dall'avere (o, meglio, dal richiedere) una politica industriale?

La risposta è no, perché nemmeno la Fiat spavalda di Marchionne può permettersi di disegnare una "Fabbrica Italia" (così come è stato battezzato il programma di rafforzamento della presenza nel nostro Paese) senza fare i conti con l'Italia. Con l'Italia tutta, politica compresa, e non solo con i sindacati.

Purtroppo il dibattito sul rapporto tra scelte aziendali e politiche pubbliche tende sempre a ritornare alla questione dei sussidi: passati, presenti, futuri. Ed anche Marchionne, nel momento in cui negava che Fiat fosse o volesse essere un'impresa assistita, ha però richiamato le generose sovvenzioni che stanno accompagnando i processi di ristrutturazione dei concorrenti europei: antiche schizofrenie di casa Fiat...

E invece la vera questione sta altrove, ossia nella coerenza che dovrebbe esistere tra un disegno aziendale di tale portata ed il disegno che governo e parlamento esprimono (o dovrebbero esprimere) sul ruolo e sulle prospettive del settore manifatturiero e dell'industria automobilistica in Italia. La vera questione è quella antica del rapporto tra interessi importanti (ma pur sempre individuali) ed interessi collettivi. "Fabbrica Italia" può limitarsi ad essere una visione aziendale senza diventare visione collettiva? Un progetto aziendale senza diventare progetto politico?

Citiamo solo tre delle molte ragioni che ci portano a rispondere negativamente a questa domanda.

"Fabbrica Italia" significa razionalizzazioni dolorose, come la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese: missione impossibile senza politiche di riconversione delle economie locali di grande impegno (e di costo non inferiore a quello che permise l'insediamento originario da parte di Fiat).

"Fabbrica Italia" significa che i vantaggi competitivi legati ai punti di forza tecnologici vengano mantenuti e rafforzati: missione impossibile senza una piattaforma di alta formazione e di ricerca pubblica che dialoghi con la ricerca industriale.

"Fabbrica Italia" significa mutamenti importanti nell'organizzazione della produzione e del lavoro: missione impossibile se non si matura un consenso sociale su quali siano le condizioni accettabili per il mantenimento di una manifattura competitiva.

Vi è d'altra parte anche "il piano B": la delocalizzazione sistematica all'estero. Marchionne dice che non sarebbe piacevole (ha ragione: nemmeno per Fiat!), lo brandisce come arma negoziale, ma Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera del 22 aprile ci ricorda come i mutamenti nella struttura aziendale stiano a certificare che "si allentano i legami che per un secolo hanno stretto le sorti della Fiat a quelle del Paese, e viceversa. (...) Le promesse di investimento in Italia vanno registrate, ma la tendenza pare irreversibile".

Quindi sarebbe forse saggio non ingannarsi e non ingannare. Lo scarto tra "piano A" e "piano B" non sta nella remissività (detta anche "flessibilità") dei lavoratori e dei sindacati. Sta nel fatto che ci sia o non ci sia una coerente volontà del Paese di continuare ad essere luogo di manifattura e nella capacità di rendere ciò compatibile con i valori e le aspirazioni di una società avanzata per una crescita sostenibile. La parola è alla politica.

Torna all'archivio