[26/04/2010] News

L'invenzione dell'economia - di Serge Latouche

"Sappiamo che la decrescita è anzitutto uno slogan e uno slogan provocatorio". E subito dopo: "Evidentemente sostenere la decrescita per la decrescita sarebbe insensato".  Fonte: Serge Latouche, 2010. Nel suo ultimo libro, L'invenzione dell'economia, Latouche sembra aver voluto fare piazza pulita delle ideologie che all'inizio erano fiorite intorno alla sua teoria della decrescita, e addirittura sembra aver approfondito e precisato una delle critiche che greenreport insieme ad altri, gli ha sempre posto e alla quale nel 2006 aveva risposto: "La parola decrescita, più che un concetto, è uno slogan, che serve per segnare una rottura con la religione della crescita. Se vogliamo essere rigorosi, allora dovremmo parlare di a-crescita. Dobbiamo diventare ateisti della crescita. Penso che mai come in questo momento sia assolutamente necessario, perché già superiamo di oltre il 30 per cento la capacità di rigenerazione della biosfera".

Le stesse parole, gli stessi concetti li ritroviamo oggi in questo libro che per ammissione del suo stesso autore rappresenta o almeno vorrebbe tentare di rappresentare la summa della sua intera attività intellettuale, "un vasto programma di ricerca - scrive - che per essere portato a termine avrebbe bisogno di molte vite" e che affronta la storia dell'economia sotto 3 angolature interdipendenti e complementari: l'invenzione teorica dell'economia, l'invenzione storica e, soprattutto,  l'invenzione semantica (attraverso significazioni immaginarie sociali) che ha preceduto le altre due invenzioni e che svela la sua debolezza nell'ultimo capitolo "Il crepuscolo dell'economia" in cui Latouche descrive la fine del dramma: al termine di una lunga traiettoria teorica e storica i nodi semantici si sciolgono nell'era della decomposizione che stiamo vivendo oggi: "un'epoca che forse non è la più importante , né la più interessante, ma l'unica che ci riguarda veramente perché siamo  gli attori e gli spettatori di questo ultimo atto. Quel che accadrà,  se riusciremo a lasciare ai nostri figli un mondo e un'umanità in grado di proseguire la propria storia, lo dovranno raccontare coloro che verranno dopo di noi".

Detto per inciso, proprio quest'ultimo capitolo citato, e le premesse, sono le parti più interessanti di questo libro, almeno dal nostro punto vista. Partiamo dalle premesse, dove appunto Latouche dimostra di aver recepito molte delle critiche che venivano avanzate alla sua teoria della decrescita, che quindi ne esce meno ideologizzata, meno gridata e più trasparente e più sobria, per usare un termine caro all'autore.

Riconoscendo il valore di slogan, mutuandolo in acrescita, individuandola come una religione fideistica, Latouche sembra ammettere che il problema non è la crescita in quanto tale, ma l'idea di crescita per la crescita, dove si confonde dogmaticamente il mezzo con il fine ignorando i limiti del pianeta. E implicitamente si avvicina alla necessità di comprendere cosa può crescere -anche quantitativamente- e cosa non deve crescere -neppure qualitativamente- perché si vada in direzione di una sostenibilità dei flussi di energia e di materia che sta alla base di un nuovo modello di sviluppo, dove la qualità della vita, dell'ambiente in cui si vive, della socialità siano contabilizzati per il loro vero valore.

Ci si avvicina a tal punto da ammettere che "una società della decrescita (inteso come slogan, ricordiamolo, quasi un brand ormai forte da sfruttare nonostante sia inesatto, ndr) dovrà organizzare la produzione della propria vita e per questo utilizzare in modo ragionevole le risorse del proprio ambiente e consumarle nella forma di beni materiali e servizi, ma dovrà farlo (...) in un modo di vita di un'economia post-industriale, nella quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza dal mercato, e ci sono riuscite proteggendo - con strumenti politici - una infrastruttura in cui tecniche e utensili srevono a creare valori d'uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti professionali di bisogni". 

Meno significativo e soprattutto meno originale il capitolo conclusivo, in cui Latouche ispirato anche liricamente disegna una sorta di Apocalisse a cui ci stiamo rivolgendo dopo aver vissuto "l'acme della onnimercificazione del mondo", un delirio consumistico "dove le parole servono soltanto a far vendere" oggetti di consumo divenuti "il combustibile di una pulsione ossessiva di cui siamo tossicodipendenti", fino a quando "la monetizzazione di tutto e di ogni cosa provoca il collasso delle significazioni" e quindi alla "morte dell'economia e forse dell'umanità stessa". A meno che, appunto, non si costruisca una nuova società della decrescita, pardon, dell'acrescita.

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