[05/08/2009] News

L'araba fenice

LIVORNO. E' passato esattamente un anno da quando le oscillazioni del prezzo del petrolio greggio iniziarono una lenta, ma continua ascesa seguita a ruota da tutte le materie prime, comprese quelle alimentari. Il prezzo del greggio raggiunse la quotazione di 147 dollari al barile nel luglio 2008. Negli Stati Uniti soffiavano già i venti della crisi e in Europa il dibattito era se fossimo di fronte ad una fase di recessione a livello mondiale, a cui in molti si affrettavano a dire che ancora non era il caso di allarmarsi anche se nessuno, però, era in grado di giurare che recessione non ci sarebbe stata. All'ascesa del prezzo del barile seguì in pochi giorni una fase discendente delle quotazioni, accompagnata da un'analoga discesa dei prezzi delle materie prime che compongono la cosiddetta categoria dei beni rifugio: oro, argento e altri metalli. Anche in quel frangente le domande si concentrarono su se e quanto sarebbe durata quella fase e quale effetto avrebbe avuto sull'economia.

E' passato un anno, la crisi economico- finanziaria si è allargata senza confini e ha duramente intaccato l'economia reale i cui effetti, già pesanti, non  sono ancora del tutto dispiegati.

Le domande adesso riguardano i tempi in cui usciremo da questa recessione e le antenne sono vigili ad individuare i germogli della ripresa. E' passato un anno e i prezzi del petrolio hanno cominciato a riprendere verso l'alto: l'ascesa cominciata da metà luglio ha fatto toccare ieri al Brent i 74 dollari al barile, il livello più alto registrato da ottobre e quasi il doppio rispetto a quello di dicembre e conseguentemente hanno ripreso a salire i prezzi di gran parte delle materie prime comprese quelle alimentari, in particolare lo zucchero (lo scorso anno era il riso). Una situazione in cui si incrociano fattori speculativi ma non solo.

«Se i prezzi del greggio salgono ancora- avverte il capo economista dell'Agenzia internazionale dell'energia, Fatih Birol- questo potrà strangolare la ripresa economica». Come dire che potremo vedere seccarsi presto i germogli che faticosamente cercavano di spuntare. E' passato un anno, sono cambiate le cifre delle quotazioni del greggio (70 dollari meno), è passata una crisi economica sui cieli del pianeta a livelli paragonabili a quella del '29, ci sono stati dibattiti a non finire sui meccanismi che l'hanno ingenerata, sulle responsabilità e sulle misure da prendere per uscirne, sulla necessità di rivedere il sistema delle regole e dei controlli.

Si è riaperto il dibattito sull'opportunità che in soccorso dell'economia finanziaria, oltre che su quella reale, dovessero o meno intervenire gli Stati, se questo avrebbe potuto comportare la fine del capitalismo o la sua trasformazione; il dibattito non si è ancora spento e ancora siamo di fronte a scenari in cui la speculazione sulle risorse, scarse, potrebbe mettere a rischio la difficile ripresa economica a livello planetario.

Segnali di un modello che come l'araba fenice risorge dalle ceneri. L'avvertimento lanciato ieri da Fatih Birol, se letto assieme a quelli che da tempo il capo economista dell'Aie sta lanciando- la dicono lunga sulla necessità di cambiare un modello di sviluppo economico basato su questi canoni e sullo sfruttamento delle risorse energetiche come se queste fosse infinite.

«Dobbiamo abbandonare il petrolio- ripete da tempo e in particolare ai paesi industrializzati Birol- e prima lo facciamo meglio sarà». La valutazione fatta dall'Aie sulla capacità produttiva dei campi di petrolio esistenti, fatta su oltre 800 campi petroliferi nel mondo (i tre quarti delle riserve globali), segnala che la gran parte di maggiori giacimenti hanno già raggiunto il proprio picco e che il tasso di declino della produzione petrolifera nei pozzi esistenti sta procedendo ad un tasso del 6,7% annuale. Che solo due anni fa era calcolata dall'Aie del 3,7%.

Quindi il petrolio si sta esaurendo e lo fa a ritmi molto più veloci di quelli previsti ed è probabile che raggiunga un picco entro i prossimi 10 anni. Una situazione che potrebbe portare a conseguenze difficilmente (o forse nemmeno tanto) immaginabili per l'economia, se si aggiunge poi il fatto che la domanda di petrolio è in aumento e che gli investimenti per cercare e sfruttare giacimenti più difficilmente raggiungibili sono diminuiti, anche per effetto della crisi economica.

«La via migliore per ridurre la dipendenza dal greggio - scriveva Cipolletta sul Sole 24ore a luglio dello scorso anno - resta quella di un consistente aumento del suo prezzo: proprio quello che sta succedendo adesso». Una transazione che - sempre Birol- ammette lunga e onerosa ma che deve essere messa al primo posto dell'agenda della comunità mondiale. Una strada che negli Stati Uniti, Barak Obama sta cercando di avviare, puntando in particolare su efficienza e rinnovabili.

Mentre la risposta che viene dalla politica nostrana, già tiepida in tal senso si è ulteriormente raffreddata con la discesa del prezzo del greggio, e anziché impostare serie politiche volte all'efficienza energetica e alle rinnovabili è andata a rinverdire tecnologie obsolete quali il carbone e il nucleare.

Prova ne sono il via libera dato in questi giorni dal Ministero dell'Ambiente alla riconversione di centrali a carbone e le norme per il ritorno al nucleare contenute nel ddl sviluppo. 

«Il vero grande rischio - disse Pasquale Pistorio in una intervista a greenreport a settembre dello scorso anno- è che in attesa del nucleare non si faccia niente su efficienza, risparmio energetico e sullo sviluppo delle rinnovabili». Un rischio che sta divenendo una triste realtà.

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