[27/05/2010] News

Istat: il "research divide" mina la competitività e ipoteca il futuro degli italiani di domani

GROSSETO. E' un paese al bivio quello che rappresenta l'Istat nel suo rapporto annuale presentato ieri nella sede di Montecitorio e che dovrebbe individuare bene dove porre le poche risorse disponibili per garantire un futuro alle prossime generazioni.

Un paese su cui, mentre sono ancora del tutto evidenti i segni della crisi economica planetaria, si stanno evidenziando, come nel resto d'Europa, i problemi che derivano dal non aver messo assieme ad una politica monetaria anche una politica economica capace di mettere regole e freni ad un sistema finanziario che è ancora libero di far prevalere i propri interessi speculativi.

Ma, si legge nelle conclusioni del rapporto Istat, «le difficoltà e le incertezze del presente non devono però far dimenticare i problemi che il Paese deve affrontare per assicurare un futuro di prosperità alle generazioni attuali e a quelle future. Alla vigilia dell'adozione della nuova Strategia Europa 2020 è necessario comprendere come orientare le risorse disponibili al fine di creare
le condizioni economiche, sociali e ambientali che determinano la qualità della vita in un Paese».

Delle questioni ambientali Istat si occupa egregiamente in questo rapporto, come ne abbiano dato conto ieri e lo fa anche rispetto ad altre questioni che occupano una posizione strategica per la qualità della vita del paese, ovvero i settori della ricerca e quello della formazione culturale, che presentano, invece, bilanci niente affatto commisurati al ruolo che dovrebbero assumere come leva per raggiungere quegli obiettivi indicati dalle strategie europee.

«Purtroppo - si legge nel rapporto - il deficit storico di ricerca e innovazione che caratterizza il nostro Paese condiziona negativamente la crescita economica, la produttività e l'accumulazione di
capitale. Guardando all'analisi del livello e dell'evoluzione recente degli indicatori che
descrivono queste dimensioni, si nota, nel confronto con la media europea, un ritardo in tutti gli ambiti, a eccezione dell'indicatore relativo alle imprese che usano servizi di e-government».

La spesa complessiva in Ricerca e Sviluppo (R&S) è per il 2008 all'1,2% del Pil, ovvero quanto si spendeva a metà degli anni Ottanta: assolutamente non in linea con la media europea che è all'1,9% e decisamente lontano dal 3% fissato come obiettivo nella strategia di Lisbona e confermato in quella di Europa 2020.

La distanza che ci separa dal resto d'Europa rimane assai elevata relativamente alla spesa in R&S sostenuta dalle imprese, ferma allo 0,6% del Pil rispetto a una media europea dell'1,2 % e al numero di ricercatori a tempo pieno presso le imprese che è salito appena del 14% tra il 1990 e il 2008, contro il 40% della Germania, mentre in Francia il numero dei ricercatori è raddoppiato e in Spagna triplicato.

Ma non è più confortante il dato relativo al livello d'istruzione della popolazione: il 46,1% della popolazione adulta (25-64 anni) ha conseguito al più la licenza media rispetto al dato europeo del 28,5%. L'Italia si distingue negativamente nel contesto europeo anche per la quota di giovani (18-24 anni) che ha abbandonato gli studi senza aver conseguito un diploma di scuola superiore: il 19,2 % nel 2009, che significa ben quattro punti percentuali in più della media europea e nove punti rispetto all'obiettivo fissato dalla Strategia di Lisbona e riproposto da Europa 2020.

Un divario su cui incide ancora molto la scarsa partecipazione all'istruzione secondaria e terziaria da parte della popolazione di estrazione sociale più bassa.
Lontano dalla quota del 40% proposta da Europa 2020 è anche la percentuale dei laureati, che- nonostante vi siano stati incrementi positivi, nel 2009 è ancora al 21,6% dei giovani tra
i 25 e i 29 anni.

L'Italia registra anche uno dei tassi di partecipazione alla formazione continua degli adulti tra i più bassi in Europa: nel corso del 2005 soltanto il 22,2 % dei 25-64enni ha effettuato almeno un'attività di studio e/o di formazione, contro una media europea del 36%. E questa carenza di formazione colpisce soprattutto i disoccupati (16,9%), gli inattivi (11,4%), le persone delle classi di
età più avanzate (11,8 % tra i 55-64enni) e i possessori di basso titolo di studio (8,2%) alimentando un circolo vizioso in cui diventa difficile recuperare il divario per chi parte già svantaggiato dal punto di vista dell'istruzione scolastica.

Questo scarso bilancio del sistema di istruzione e formazione si riflette poi sulle competenze
e conoscenze acquisite da giovani e adulti, che in base ai risultati dell'indagine Pisa (Programme
for international student assessment) promossa dall'Ocse, mostrano una situazione critica su tutte le discipline collocando il nostro Paese sempre al di sotto dei valori medi dei 30 paesi Ocse. Situazione che diviene ancora più preoccupante per quanto riguarda la popolazione adulta il cui livello di competenze risulta tra i più bassi dei paesi Ocse.

Una distanza rispetto agli altri paesi sviluppati che si mantiene elevata anche nel campo dell'utilizzo delle nuove tecnologie e su cui ancora una volta pesano le differenze sociali: meno del 20% dei ragazzi da 6 a 17 anni figli di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti non usa il personal computer, percentuale che diventa del 35% per i figli di operai e che si azzera per i ragazzi delle classi sociali più basse che non hanno il pc in casa e non trovano nella scuola un adeguato riequilibrio delle opportunità.

 

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