[20/07/2010] News

Un paese senza un piano industriale è un paese senza futuro

GROSSETO. I dati dell'industria italiana sono positivi secondo l'Istat che registra sia  un aumento degli ordinativi su base mensile (del 26,6% rispetto a maggio del 2009) e su base annua (in rialzo del 3,2% rispetto ad aprile), sia un aumento di fatturato dell'8,9% rispetto allo stesso mese del 2009 e dello 0,8% rispetto ad aprile: in questo caso si tratta del dato più alto dal febbraio 2008.

L'industria è tornata a segnare il punto quindi e, considerando il fatturato per raggruppamenti principali, si registrano variazioni congiunturali positive per l'energia (+2,9%), per i beni intermedi (+1,4%), per i beni strumentali (+0,2%) e per i beni di consumo (+0,2% con -0,1% per quelli durevoli e +0,2% per quelli non durevoli).

L'analisi per settore di attività economica, rileva l'Istat, mostra variazioni tendenziali positive più significative dell'indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario nei settori fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+28,5%), metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (+21,6%) e fabbricazioni di prodotti chimici (+19,9%).

Ma ai dati positivi di Istat fanno da contraltare a quelli del rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno, da cui si rileva che gli investimenti industriali sono crollati del 9,6% nel 2009, dopo la flessione del 3,7% del 2008 e che segnala come l'industria si trovi in una «situazione senza precedenti, con una perdita di oltre 100.000 posti di lavoro dal 2008 al 2009, di cui 61.000 solo l'anno scorso».

Dati che collimano di più con la situazione in cui versano, in particolare, alcuni comparti che hanno fatto del nostro paese la settima potenza industriale, ovvero la chimica e la siderurgia ormai in quasi totale dismissione, e che si riflette nel fatto che- nonostante la crisi economica ancora pressante- il premier non abbia ancora provveduto alla sostituzione del ministro dello Sviluppo Claudio Scajola, che si è dimesso ormai quasi tre mesi fa e ne mantenga l'interim, senza poi occuparsene.

Dal comparto della chimica i segnali sono pessimi e saranno infatti in presidio oggi a Roma, davanti a Palazzo Chigi, i lavoratori dell'industria chimica Vinyls, che hanno visto tramontare anche l'ipotesi di accordo con gli arabi di Ramco. Una mobilitazione organizzata dalla Cgil e dalla Filctem che porteranno nella capitale rappresentanti degli stabilimenti di Marghera, Ravenna e Porto Torres che rischiano di perdere definitivamente il loro posto di lavoro dopo una lunga cassa integrazione mettendo a rischio anche l'indotto. Circa 7000 lavoratori del ciclo del cloro  tra Vinyl, Syndial l'indotto e l'area della subfornitura.

«Nessuno - si legge in una nota della Filctem Cgil - finora ha mantenuto gli impegni presi con le istituzioni, con i lavoratori, con i sindacati e la crisi rischia di degenerare: gli impianti di Marghera, Porto Torres e Ravenna sono ancora fermi a nove mesi di distanza dall'accordo sottoscritto al ministero del Lavoro (1 dicembre 2009) e prima ancora (12 novembre 2009) al ministero dello Sviluppo Economico, nel quale era testualmente scritto che 'a far data dal 15 dicembre 2009' si sarebbe consentito 'un graduale e progressivo riavvio di tutti gli impianti».

«Siamo tornati al punto di partenza - ha dichiarato Alberto Morselli, segretario generale della Filctem-Cgil - come in un pericolosissimo gioco dell'oca, ma in questo caso giocato tutto sulla pelle di centinaia di famiglie» e rivolto al premier Berlusconi, che è anche ministro dello Sviluppo Economico 'ad interim', gli ha lanciato un appello a salvare la chimica e i suoi lavoratori. «Se la chimica è strategica, come più volte detto a parole- ha sottolineato Morselli- il presidente del Consiglio lo dimostri una volta per tutte: innanzitutto chieda all'Eni di salvare Vinyls e di istruire un piano industriale di rilancio nel settore, faccia rispettare l'impegno di riavvio degli impianti assunto dai commissari straordinari, visto che hanno in mano le fidejussioni di Stato, salvi i posti di lavoro e l'integrità del ciclo del cloro».

Dopo che è saltata anche l'ipotesi di accordo con la Ramco, la previsione annunciata dal sottosegretario allo Sviluppo Stefano Saglia nell'incontro dello scorso 15 giugno è quella di  bandire una gara internazionale, il cui bando non è però ancora stato scritto.

«Intanto, gli operai restano in cassa integrazione -conclude la Filctem Cgil- e, ogni giorno che passa, c'è il rischio che i commissari non abbiano neppure i soldi per pagare gli stipendi».

Non è certo più roseo lo scenario che riguarda un altro dei comparti che ha fatto un pezzo della storia industriale del nostro paese, ovvero quello delle acciaierie Lucchini che interessano anche in questo caso realtà che vanno dal nord al sud con gli stabilimenti di Piombino, Trieste, Lecco, Condove (in provincia di Torino) e Bari.

Lucchini non è più nemmeno azionista avendo venduto a marzo anche le sue ultime quote alla russa Severstal, divenuta quindi unica proprietaria del gruppo ma che a sua volta ha ceduto il 50,8% delle quote azionarie alla finanziaria Mordachoff già azionista di maggioranza di Severstal e ora divenuta  azionista di riferimento dell'ex gruppo siderurgico italiano. Una operazione che è stata letta come un evidente messaggio di disimpegno sull'attività industriale e di messa in sicurezza degli azionisti.

Entro il 29 luglio l'acquirente dovrà presentare un piano per garantire mantenimento e consolidamento dell'azienda in Italia e per quella data è stato anche convocato un incontro con le parti sociali nella sede del ministero del Lavoro, dove il gruppo potrebbe calare sul piatto della bilancia i circa 4 mila lavoratori, tra diretti e indiretti, che rischiano il posto, e fissare le condizioni  del loro salvataggio.

Intanto è già decisa la smobilitazione di Brescia, da dove secondo fonti del capoluogo lombardo- entro settembre verranno trasferiti a Piombino settori vitali, come l'approvvigionamento di materie prime, gli uffici finanziari e il settore dell'ingegneria strategica. Un accorpamento alla sede toscana che viene inquadrato come un restringimento del perimetro aziendale, propedeutico alla cessione.

Segnali non certo incoraggianti per il futuro economico e occupazionale del nostro paese ma su cui il governo non batte ciglio.

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