[14/08/2009] News

Il voto egoista dell'Australia e i barlumi di speranza per un accordo a Copenhagen

LIVORNO. La notizia del voto contrario del Senato australiano alla nuova legge sui cambiamenti climatici e ad un piano di riduzione delle emissioni climalteranti che già i Paesi in via di sviluppoo consideravano poco coraggioso ed efficace, è giunto ai Climate change talks in corso a Bonn come un brutto presagio per il vertice di Copenhagen a dicembre.

L'Australia è non solo un Paese importante per trovare un accordo per combattere i cambiamenti climatici, ma è anche in prima fila nel subire le loro conseguenze: incendi, siccità devastanti, sbiancamento delle barriere coralline, perdita di biodiversità, scarsità d'acqua... tutte cose che avevano convinto il premier laburista Kevin Rudd a firmare il Protocollo di Kyoto e ad avviare una politica ambientale molto più avanzata di quella dell'eco-scettico governo conservatore che lo aveva preceduto.

A quanto pare nel parlamento di Canberra non hanno prevalso le (molto popolari) istanze del Green party che chiedevano a Rudd di fare di molto di più di quanto proposto, ma hanno vinto le lobby del carbone e dell'industria che hanno dalla loro parte tutta la destra liberale e un bel gruppetto di laburisti sviluppasti che temono per la perdita di competitività delle imprese australiane.

Il voto complica ulteriormente un empasse che si sta registrando a Bonn, dove gli Usa e gli altri Paesi sviluppati si rifiutano di eventuali modifiche al regime della proprietà intellettuale che potrebbero aiutare i Paesi poveri ad avere accesso alle tecnologie pulite che sono in mano alle industrie occidentali.

L'India si è messa alla testa di un gruppo di Paesi in via di sviluppo e poveri che, dopo il voto "isolazionista" dell'Australia, si è ulteriormente insospettito riguardo alle reali volontà dei Paesi ricchi di condividere le tecnologie necessarie per contrastare e mitigare il global warming.

I negoziatori Usa vorrebbero addirittura depennare l'intera discussione sulla modifica dei diritti di proprietà intellettuale dai colloqui di Bonn. Va meglio per quanto riguarda la questione dei finanziamenti: i Paesi ricchi sembra abbiano ormai accettato l'idea di fornire fondi ai più poveri che si impegnano per la mitigazione dei gas serra.

Il Gruppo dei 77 e la Cina hanno chiesto che i Paesi sviluppati acquistino i diritti di proprietà intellettuale delle imprese private e li forniscano gratuitamente ai Paesi più poveri.

Il G77 sostiene che gran parte delle tecnologie sono in mano a privati occidentali e che la crisi globale non deve essere l'occasione per questi ultimi per "blindare" il mercato dei loro prodotti nel mondo in via di sviluppo, altrimenti tutti i discorsi sulla necessità di salvare il pianeta andranno a farsi benedire.

Usa, Ue ed ora anche Australia rispondono che bisogna lasciare libero il mercato che saprà così trovare la giusta soluzione al cambiamento climatico.

La delegazione indiana a Bonn ribatte che «Il mercato potrebbe non essere attendibile per fornire una regolare e coerente flusso di fondi e tecnologie», la dimostrazione sarebbe sotto gli occhi di tutti: la recessione e la crisi finanziaria che hanno colpito il nord ricco del pianeta e che ha portato gli investitori privati ritirare e bloccare gli investimenti per evitare rischi.

«I paesi sviluppati girano tutto il mondo dicendo: il cambiamento climatico è una crisi globale più grande di ogni fase di recessione economica - ha detto un delegato indiano - Chiedono all'India di dare un contributo sproporzionato rispetto alla sua responsabilità storica. Ma vogliono trarre un guadagno da questa situazione e ci chiedono di aver fiducia nei mercati mentre proprio adesso sono nel bel mezzo di una crisi finanziaria».

Secondo John Ashe, ambasciatore all'Onu di Antigua e Barbuda, il summit di Copenhagen rischia di essere un flop se le nazioni industrializzate seguiranno l'esempio dell'Australia e si rifiuteranno di tagliare ulteriormente le loro emissioni di gas serra, tra il 25 e il 45%, entro il 2020. «Sarebbe difficile andare al di sotto di tale livello e giudicare il risultato come un successo - ha detto Ashe alla Reuters - Sulla base degli impegni che sono attualmente sul tavolo, raggiungere il 25% sarebbe già abbastanza».

Fino ad ora secondo il segretario dell'Unfccc Yvo de Boer la media dei tagli di emissioni proposti dai Paesi industrializzati si colloca tra il 15 e il 21% rispetto ai livelli del 1990.

Secondo Ashe la crisi ha dato un bel colpo agli obiettivi per la lotta contro il riscaldamento globale: «C'è un senso di urgenza nei negoziati sul cambiamento climatico, ma credo che siamo stati "compressi" dalla crisi economica. Ulteriori progressi potrebbero essere possibili, dopo la riunione dei leader del Gruppo dei 20 a Pittsburgh, negli Usa, alla fine di settembre. Il summit riguarderà anche la discussione su come aiutare i Paesi in via di sviluppo a far fronte ai cambiamenti climatici. C'è un barlume di speranza da Pittsburgh. Abbiamo bisogno di fare qualcosa sul lato finanziario e tecnologico per sbloccare i negoziati».

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