[12/01/2011] News

I ragazzi di Tunisi e Algeri... e il nostro colpevole silenzio

LIVORNO. Oggi Zine El-Abidine Ben Ali, il satrapo che governa la Tunisia dal 1987, dopo aver destituito con un golpe militare, fra la colpevole indifferenza e la malcelata complicità dell'Italia e dei Paesi occidentali, il senile dittatore socialista destouriano Bourghiba che lo aveva nominato solo 5 settimane prima capo del governo, ha schierato l'esercito contro il suo popolo e fatto massacrare almeno altri 5 disperati giovani.

Anche in Algeria la tensione rimane alta e cova una febbre che è il sintomo di un cancro amorevolmente curato fino alla metastasi dalle complicità neocolonialiste e dallo scambio di riconoscimenti democratici con il petrolio e il gas algerino e con la svendita di territorio e braccia da lavoro in Tunisia.

Se si legge la storia politica di Ben Ali, un generale e capo dei servizi segreti del regime destouriano, appoggiato dai comprensivi governi democristiani e nel cuore del socialismo craxiano, si fatica a comprendere come un simile individuo possa essere stato fatto passare per un campione della democrazia e come esempio di governo arabo moderato. In realtà Ben Ali è stato ed è, fino a che la rabbia popolare o un golpe non lo costringeranno a mollare la sua insanguinata poltrona, un impresentabile esponente di quella malattia autoritaria che contraddistingue i regimi "moderati" mediorientali e nordafricani: un impasto di complicità neocolonialiste e di svendita delle risorse, di tradimento degli ideali panarabi (quando non socialisti come nel caso di Algeria e Tunisia) diventati populismo canagliesco in salsa islamista che alimenta cricche familistiche e di potere, che lasciano a popoli senza voce e senza opposizione le briciole di un banchetto allestito con sfoggio di sfarzo ed ostentazione di ricchezza.

Guardando a quel succede nella piccola Tunisia, ai morti e ai suicidi senza speranza, viene da pensare a quante volte abbiamo sentito magnificare qui da noi in Italia il regime tunisino per la facilità di fare affari, per l'accoglienza data agli imprenditori italiani, per la mancanza di fastidiosi lacci e lacciuoli burocratici e piani urbanistici per costruire mega-porti e mega-villaggi turistici (magari con permessi ben oleati con bustarelle), vengono in mente i racconti ammirati di quanto poco costassero il sudore e il tempo delle donne tunisine che cuciono i nostri jeans firmati, di quanto siano cordiali ed ubbidienti i lavoratori, di come un regime con un pugno di ferro in guanto di velluto sia ottimo per fare buoni affari senza il fastidio di sindacati, ambientalisti e giornali curiosi.

Dietro quella facciata di cartone e cemento che gli italiani hanno in gran parte contribuito ad edificare e imbellettare, fino a farla diventare lo scenario di improbabili rifugi democratici per statisti "esuli" ricercati in Patria, nella Tunisia disperata e profonda delle periferie dove vivono quelli che il regime non ha benedetto facendoli diventare camerieri e servi, nelle campagne svuotate da un'emigrazione oggi senza approdi, nelle università piene di studenti senza futuro, si stanno tirando i conti e le pietre della rabbia e dell'umiliazione di un popolo mite e non saranno conti buoni per Ben Ali e per noi. La cosa incredibile e che da noi non se ne parli. Come in Somalia il nostro passato coloniale e presente neocoloniale viene cancellato dalla storia e dalla cronaca e Ben Ali non lo conosce più nessuno, nemmeno quelli che lo indicavano come esempio decisionista da seguire in Italia per porti e cemento.

In Tunisia come in Algeria e nelle brulicanti città assediate dal deserto e dalla miseria dei regimi arabi "moderati" la vera vittima rischia di diventare la democrazia, visto che l'Occidente ha raccontato che la maschera che rivestiva quei regimi era il meno peggio, visto che quella maschera truccata della democrazia non ha mai nascosto davvero davanti agli occhi dei giovani arabi il volto orripilante del potere assoluto, sfigurato dalla corruzione e dall'ingordigia, dalla tortura, dalla persecuzione degli oppositori e tenuto su dalle baionette dell'esercito e dagli innominabili scambi con le democrazie occidentali.

E' in quella disperata mancanza di futuro e alternativa politica che si nutre l'integralismo, che è mancanza di speranza e disconoscimento dell'altro per un ripiegarsi in sé stesso. Ma come possiamo chiedere ai giovani tunisini ed algerini che sfidano le pallottole dei loro regimi di riconoscere le ragioni della democrazia occidentale se questa si è sempre schierata con i loro aguzzini, con chi affama le loro famiglie e distrugge le loro speranze, lasciandogli solo il rifugio di Allah o la fuga oltremare, dove li aspettano le vedette e i cani del democratico occidente o le mitraglie di Gheddafi che pattugliano la nostra frontiera coloniale?

Eppure la rabbia, i desideri e le paure dei ragazzi che incendiano le notti di Tunisi e Algeri sono le stesse, in questo mondo globalizzato e collegato da legami sensibili e misteriosi, le stesse dei ragazzi che con gli scudi fatti di libri hanno occupato le strade di Roma, Pisa, Firenze, Trieste, Palermo... solo pochi giorni fa. E ce li siamo già scordati.

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