[25/01/2011] News

La maniera cinese di sequestrare il carbonio

NAPOLI. Impianto numero 2 della centrale a carbone da 1.320 megawatt di Shidongkou, Shangai, Cina. Il gas di post-combustione, ricco di anidride carbonica (CO2), viene fatto passare in una colonna riempita con un solvente, l'etanolammina, e da una serie di additivi non tutti resi noti. La CO2 si dissolve e viene trattenuta dall'etanolammina, mentre tutto il resto passa. Il solvente viene poi riscaldato in modo che rilasci la CO2, pura e pronta per essere utilizzata anche nell'industria alimentare.

Si tratta di un processo classico e tutto sommato noto di "carbon capture and storage" (CCS), di sequestro e riciclo di carbonio in impianti industriali e per la produzione di energia elettrica. Ma nessun altro impianto al mondo di CCS è stato oggetto, come l'impianto di Shidongkou, di così elevata attenzione. Intere schiere di esperti occidentali, come ci informa la rivista Science, lo hanno visitato negli ultimi tempi: scienziati, ingegneri, manager e politici come il segretario del Department of Energy (DOE) degli Stati Uniti, il Premio Nobel per la fisica e grande esperto di processi energetici, Steven Chu.

Il motivo di tanto interesse non risiede nel fatto che l'impianto sequestra ogni anno 120.000 tonnellate di CO2: una quantità certo ragguardevole, ma che non rappresenta più del 3% di tutta l'anidride carbonica prodotta dalla centrale. Causa di tanta attenzione è il costo del processo di sequestro del carbonio: compreso fra 30 e 35 dollari per tonnellata di CO2. Un terzo rispetto al costo medio, almeno 100 dollari a tonnellata, di un impianto analogo negli Stati Uniti o in Europa.
Le visite sono interessate dunque a capire "come fanno i cinesi". Se il segreto sta nella chimica (l'uso del solvente e degli additivi), nell'ingegneria (il ciclo di sequestro del carbonio), in altre condizioni al contorno o in un mix di tutti questi tre fattori.

Per ora le performance di Shidongkou, che i cinesi vogliono estendere ad altri impianti, ci offrono alcuni spunti di riflessione.

Primo: il basso costo del processo nell'impianto di Shangai rende competitivo il "carbon capture and storage" sul mercato degli strumenti di contrasto ai cambiamenti climatici. Ed è questo il motivo che ha portato tanti visitatori occidentali a Shidongkou.

Secondo: è da verificare se il processo di Shidongkou sia esportabile. Se può essere utilizzato altrove, Stati Uniti ed Europa compresa. In altri termini se l'abbattimento così drammatico dei costi sia da attribuire al fatto che "tutto in Cina costa meno" o sia intrinseco al processo.

Terzo: se l'abbattimento dei costi dovesse essere intrinseco al processo e, dunque, esportabile sarebbe in grado di restituire all'uso del carbone e, più in generale, dei combustibili fossili una patente di sostenibilità ecologica? Se la risposta fosse sì, la transizione dai combustibili fossili ai combustibili "carbon free" non sarebbe più una necessità inderogabile per contrastare i cambiamenti climatici.

Quarto: i cinesi stanno davvero innovando nel campo della "green economy" e in particolare dell'energia pulita. Un settore in cui in anni recenti hanno investito oltre il 3% del Pil. Naturalmente non è detto che le soluzioni tecniche riescano ad annullare gli effetti della domanda crescente di energia e dell'uso crescente di combustibili fossili. Ma è certo che il sistema energetico cinese è sempre più costellato da impianti alla frontiera della tecnologia e un po' meno da impianti inefficienti e obsoleti. E dovremo aspettarci che presto inonderanno il mondo di strumenti tecnologicamente avanzati nel campo dell'"energia pulita". Cosa che peraltro sta già avvenendo con le tecnologie delle energie rinnovabili, solare in testa.

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