[17/02/2011] News

I giorni della collera araba, la Libia, il petrolio e l'Italia

LIVORNO. Il virus democratico sembra ormai aver infettato, come dimostrano le manifestazioni a Bengasi e le contromanifestazioni organizzate dal regime, anche la sclerotica dittatura libica che si credeva immune, grazie al suo antidito petrolifero somministrato dalla polizia di Gheddafi. Ormai è un bollettino di guerra: 4 morti nelle nuove protesta a Manama, la capitale del minuscolo Bahrain dove la ricchissima monarchia sunnita cerca di reprimere nel sangue la rivolta sciita; feriti e disordini nello Yemen, dove il regime amico dell'occidente si trova a fronteggiare la ribellione di una popolazione di con un'età media di 17,9 anni e i moti indipendentisti del sud ex comunista; in Cisgiordania nei territori ancora amministrati dall'Autorità nazionale palestinese, il debole e corrotto governo di Al Fatah del presidente Abu Mazen si è dimesso ed ha indetto nuove elezioni prima di essere defenestrato dai palestinesi che stanno festeggiando la rivoluzione egiziana, elezioni alle quali non parteciperà Hamas, chiusa nel suo fortino-prigione delle Striscia di Gaza, dove un popolo di bambini senza futuro (età media 17,5 anni) festeggia la caduta di Mubarak e guarda speranzoso agli incendi che i popoli arabi accendono sotto i troni dei loro dittatori.

Fuochi di rivolta già accesi in Marocco, Algeria, Giordania, e che covano sotto la cenere in Oman, per non parlare della Somalia già disintegrata da una guerra civile permanente e del Sudan che sta perdendo pezzi e petrolio. Proprio il petrolio, con i prezzi del greggio ormai già oltre i 100 dollari al barile e la benzina alle stelle nelle pompe occidentali, è la spia economica delle conseguenze di questa anticipata primavera araba dei gelsomini il cui odore di ritrovata libertà arriva direttamente sulle nostre coste con le migliaia di profughi che il nostro governo leghista-berlusconiano aveva affidato all'amico Gheddafi e che ora vorrebbe far reprimere dalla (forse) neonata democrazia tunisina. Cifre comunque non da "invasione" come vorrebbe far credere la propaganda già pre-elettorale, ma minori di quelle usuali prima che il dittatore libico amico di Berlusconi blindasse la nostra frontiera marittima con le n motovedette, le armi e gli euro che gli abbiamo sollecitamente fornito.

A quasi nessuno in Italia sembra interessare quali siano le nostre colpe e le nostre complicità (che sono molte) con i regimi arabi che crollano o cercano di sopravvivere nella repressione e nel sangue, ma c'è da giurarci che il "pericolo arabo-islamico" sarà uno dei cavalli di battaglia della destra populista e xenofoba che con quei pii dittatori islamici ha avuto ed ha ottimi rapporti. 

Nessuno si aspettava che, partendo da rivolte entusiasticamente appoggiate dall'Iran (e qualcuno sospetta anche finanziate, come in Bahrain) la rivolta tracimasse fino alle piazze di Teheran (altro regime con cui l'Italia fa affari d'oro che si moltiplicano nonostante il proclamato embargo), ma quel che probabilmente preoccupa di più il nostro governo è quel che sta succedendo nella nostra ex colonia libica.

Oggi "Le Monde" dedica alla situazione libica un grande rilievo che fa un quadro tenebroso del dittatore al quale Berlusconi è arrivato a baciare le mani e che pianta le sue tende finto-beduine nel cuore di Roma: «In un paese dove ogni libertà di espressione è soffocata, degli oppositori al regime di Muammar Gheddafi hanno lanciato un appello a manifestare, giovedì 17 febbraio, contro il dispotismo del potere in carica. L'appello a questa "giornata della collera" è stato lanciato su internet, con la speranza di imitare le rivoluzioni in Tunisia  e in Egitto. Dopo la caduta dei suo vecchi omologhi Ben Ali ed Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi, 68 anni, dei quali 40 al potere, è ormai il più vecchio dirigente arabo in carica».

Il prestigioso giornale francese riporta l'opinione di Francois Burgat, un ricercatore del Cnrs, autore del libro "La Libye", «In Libia il regime si nasconde dietro una facciata di democrazia diretta, ma si osservano tutte le componenti caratteristiche di un regime dittatoriale: una repressione che giunge fino alla tortura, un dirigente al potere da oltre 30 anni, una tentazione dinastica, l'appropriazione clanica delle entrate petrolifere». Secondo Burgat anche in Libia ci sono tutti gli elementi per scatenare l'ira popolare: «La situazione economica è nettamente meno tesa che in Tunisia e in Egitto, ma la redistribuzione non è soddisfacente. L'assenza di fiducia nel regime ha ucciso ogni dinamica di investimenti. La Libia ha un'economia assistita, le cui entrate provengono per più del 90% dagli idrocarburi. C'è una frustrazione economica degli imprenditori ed uno stress sociale tra i peggiori».

Gli indicatori sulla stabilità dei regimi arabi pubblicati dal New York Times e ripresi in Italia da Internazionale rivelano una faccia del regime di Gheddafi  che non è certo quella delle sue amazzoni-guardie del corpo e del circo di cavalli arabi e di hostess da convertire che presenta a Roma con la complicità dell'amico della nipote di Mubarak taroccata: Età media 24,2 anni; tasso di disoccupazione al 30%; livello di democrazia 1,9 (come il criticatissimo e boicottato Iran) utenti di internet 5% della popolazione, il che significa che, a differenza di Tunisia (34%) ed Egitto (21,2%) la rivolta libica non nasce su Twitter o su Facebook, ma nelle strade e dalla voglia di giustizia del popolo libico.   Non a caso la fiammata della rivolta è partita da Bengasi, da sempre culla della debole opposizione,

Oggi le Ong danno notizia di almeno 4 persone uccise ad Al-Baïda in scontri con le squadracce della dittatura. Secondo Libya Watch, «Le forze della sicurezza interna e le milizie dei comitati rivoluzionari  hanno disperso delle manifestazioni usando proiettili veri». Anche il sito di opposizione Libya Al-Youm parla di almeno 4 morti uccisi da proiettili sparati sulla folla. Un'altra Ong libica ma con sede a Ginevra, Human Right Solidarity, dice che secondo testimonianze ad Al-Baïda le vittime sarebbero state provocate da cecchini nascosti sui tetti che hanno sparato sui manifestanti, ferendo molte altre persone.

Come accaduto con Mubarak, potrebbe essere l'esercito a sbarazzarsi del militare golpista Gheddafi?  Secondo Burgat.«Come in Egitto o in Tunisia, il successo o meno delle manifestazioni si baserà, in ultima istanza, sul comportamento dei quadri dell'esercito libico, i cui blindati in passato hanno a più riprese rimontato i loro cingoli per prevenire ogni movimento inopinato. D'altronde, una delle specificità libiche è che Gheddafi ha sempre saputo mescolare e strumentalizzare tre reti di solidarietà: il suo circolo familiare e clanico, l'esercito e, infine,le cosiddette istituzioni "popolari" o "rivoluzionari" che ha creato. Mettendo in concorrenza queste tre reti, il dirigente libico ha potuto imporre la sua autorità al Paese».

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