Scontri a Pisa per le celebrazioni della prima connessione web italiana, partita nel 1986

Trent’anni di Internet e una tecnologia che divide

Renzi: «Da qui a 10 anni molti settori saranno travolti dalle nuove tecnologie». Ma nel Paese manca una strategia per affrontare il cambiamento

[29 Aprile 2016]

Un’occasione di festa, il trentesimo compleanno di Internet in Italia, si è trasformata in terreno di scontro tra centri sociali, sindacati e universitari contro le forze dell’ordine; un conflitto sfociato in cariche d’alleggerimento, manganellate e feriti da entrambe le fazioni. Circa 500 persone, compresi rappresentanti dell’associazione “vittime del salva banche” si sono riunite davanti alla sede del Cnr di Pisa, dove era atteso (e non pervenuto) il premier Matteo Renzi per celebrare i 30 anni della prima connessione web italiana, partita nel 1986 dall’Istituto Cnuce della città toscana.

I motivi della contestazione non sono ovviamente collegati alla celebrazione del web, quanto alla figura del presidente del Consiglio: una riedizione di quanto accaduto solo poche settimane fa a Bagnoli, quando Renzi arrivò annunciando (l’ennesimo, ma positivo) via libera alle bonifiche nell’area e venne accolto da sassaiolate in strada. La frattura tra la retorica renziana di Paese compatto che si sta ormai lasciando alle spalle la crisi e la realtà, fatta di lavoro che non c’è e crescenti disuguaglianze, si fa sempre più ampia. Anche le rilevazioni statistiche sullo stato di salute italiano, che offrono la pietra angolare per un confronto basato su dati, nei migliori dei casi offrono uno spaccato in chiaroscuro: i nuovi dati sull’occupazione diffusi oggi dall’Istat mostra a marzo un recupero degli occupati dopo il crollo di inizio anno, ma la mini-ripresa riguarda paradossalmente tutte le classi d’età ad eccezione di quella teoricamente più dinamica, i 25-34enni: oggi meno di 6 cittadini su 10 sono occupati in questa fascia d’età. Senza dimenticare che l’Italia nel suo complesso rimane il penultimo Paese dell’Unione europea per tasso d’occupazione, e il penultimo per gap tra occupati maschili e femminili.

Di fronte a questa realtà complessa quanto drammatica, le massime istituzioni nazionali sembrano ergere a protezione una barriera psicologica di rifiuto. «Con buona pace dei professionisti della critica, i dati Istat dimostrano che il Jobsact funziona», ha dichiarato il premier commentando i dati Istat.

Lo stesso riflesso automatico è scattato anche in occasione degli scontri davanti al Cnr di Pisa, liquidati affermando con faciloneria che su Internet «non ha senso litigare» ma sapendo benissimo che non è certo la rete, oggi, il terreno di scontro. Se la volontà istituzionale rimane quella di rifuggire i problemi del presente, potrebbe questa essere almeno l’occasione per discutere quelli dell’ormai prossimo futuro.

Nonostante Internet sia realtà in Italia da ormai 30 anni, come noto il digital divide rimane assai ampio tra la cittadinanza: nel 2015 il 60,2% della popolazione si è connessa a Internet (il 40,3% giornalmente), quando la media Ue28 arrivava già nel 2014 al 75%. Dietro a noi rimangono ormai solo Bulgaria e Romania.

Una parte rilevante del problema risiede certo nella carente infrastrutturazione, specialmente per quanto riguarda la banda larga e ultralarga, un tema sul quale è giusto riconoscere al governo Renzi un impegno superiore rispetto ai predecessori: «Ci sono le zone A e B, quelle più favorite, ma anche le C e D, quelle in cui portare la banda larga è più difficile – ha ribadito oggi il premier nel videomessaggio per l’Internet day –, lo dico con un termine tecnico-giuridico, quelle un po’ più ‘sfigate’. Ora lo Stato mette i soldi per portare la banda larga anche lì. C’è il primo via libera, finalmente si parte», anticipando che oggi il tema sarà oggetto del Consiglio dei ministri. Portare la rete veloce nelle case non può però bastare, se il cittadino interessato magari è a malapena capace di accendere un computer. Anche nell’avanzata Toscana, dove la rete è partita 30 anni fa, le numerose lacune dell’alfabetizzazione digitale solo recentemente hanno iniziato a sanarsi.

Il 1986 è però ormai lontano, e il mondo non è stato fermo nel frattempo. Mentre l’Italia corre dietro con grande ritardo alla prima ondata della digitalizzazione, rischia concretamente di essere sommersa da quella che sta già montando portandosi dietro la distruzione dei posti di lavoro più routinari e la conseguente disoccupazione tecnologica. «Da qui a 10 anni molti settori saranno travolti dalle nuove tecnologie e questo aprirà spazi nuovi», ha accennato oggi il premier. Internet e per estensione l’ormai vastissimo e multi-sfaccettato mondo digitale hanno finora dimostrato di essere risorse straordinarie per lo sviluppo umano ed economico del mondo, ma come tutte le tecnologie non sono esenti da rischi e chiedono di essere governate. Insieme ai «nuovi spazi» di renziana memoria già si aprono voragini di disoccupazione che non sono sanate dal tasso di crescita di nuove occupazioni, specialmente in un Paese dove ancora circa il 70% della popolazione è assimilabile nelle categorie dell’analfabetismo funzionale. Per uno sviluppo sostenibile nell’era dell’economia digitale – che rimane tutto fuorché immateriale, visto il continuo crescendo del tasso d’estrazione di risorse naturali nel mondo – occorre pensare a migliori processi di formazione, nuovi modelli industriali e forme di sostegno al reddito come quelle già raccomandate (ma non attuate) dal Comitato delle regioni europee – ancora una volta capitanato da un toscano, il presidente di Regione Enrico Rossi – per i disoccupati di lunga durata. Oltre a raccontare il successo delle riforme e che tutto ormai nel Paese è avviato al meglio, sarebbe utile se almeno nell’Internet day si avviasse un dibattito franco sulla progresso tecnologico a livello nazionale.