Land grabbing e sfratti forzati in Etiopia: cosa voleva nascondere il governo britannico (e italiano)

Un pessimo esempio dello slogan “Aiutiamoli a casa loro” nella nostra ex colonia

[4 Settembre 2015]

«Per compiacere il governo etiope, il governo britannico ha cercato di nascondere le prove di gravi violazioni dei diritti umani nella bassa valle dell’Omo, come il reinsediamento forzato dei Bodi e di altre tribù». A rivelarlo è una nuova indagine di Suvival Internationali, l’Ong internazionale che difende i diritti dei popoli indigeni..

Nella bassa valle dell’Omo vivono circa 200.000 indigeni di diverse etnie, molte tribù  hanno subito repressioni brutali e reinsediamenti forzati. Se la molla di questa persecuzione è il land grabbing, l’accaparramento delle terre fertili, Survival spiega che queste popolazioni «Sono anche vittima di razzismo da parte di un governo che li considera “arretrati” e bisognosi di “modernizzazione”». Diversi esperti e parlamentari europei hanno sottolineato che perdita della terra e delle risorse provocherà una catastrofe umanitaria nelle tribù.

Il Development Assistance Group (Dag) riunisce i principali donatori all’Etiopia e comprende 26 agenzie di sviluppo bilaterali e multilaterali. L’Italia è molto presente e attiva e ha la presidenza di diversi tavoli di lavoro. I paesi che compongono il Comitato esecutivo del Dag sono: Italia, Gran Bretagna, Canada e Usa, ai quali si aggiungono Unione europea, Banca mondiale e United Nations development programme.

Da anni l’Etiopia, una nostra ex colonia, è uno dei principali beneficiari degli aiuti della Cooperazione italiana. Nel 2005, La Direzione generale cooperazione allo sviluppo (Dgcs) italiana concesse un  credito d’aiuto di 220 milioni di euro per la realizzazione della diga idroelettrica Gilgel Gibe II, «Il finanziamento italiano più consistente mai concesso a un solo progetto di cooperazione» sottolinea Survival. Un altro credito d’aiuto italiano da  250 milioni di euro per co-finanziare il proseguimento del progetto di Gibe III venne sospeso il 31 marzo 2011 per la forte opposizione locale, di molte Ong italiane e di Survival.

Survival dice che nel marzo 2015 ha ricevuto «rapporti preoccupanti secondo cui gran parte della piccola tribù dei Kwegu è già ridotta alla fame a causa della distruzione della foresta e della morte del loro fiume, seguiti alla costruzione della diga Gibe III (realizzata da un’impresa italiana, ndr) e ai progetti di irrigazione ad essa collegati».

Nonostante tutto questo, nel 2014 l’Etiopia – e il suo governo autoritario – è stata confermata dal nostro governo come uno dei Paesi Prioritari per il triennio 2013-2015, con un raddoppio dei fondi stanziati rispetto al triennio precedente, pari a quasi 100 milioni di euro. Il budget dagli aiuti della Gran Bretagna all’Etiopia per il 2014 – 2015 supera i 489 milioni di euro. Un pessimo esempio dello slogan dello slogan “Aiutiamoli a casa loro”, che troppo spesso nasconde (e nemmeno troppo) un neocolonialismo che si sostanzia nel land grabbing e in grandi progetti che invece di aiutare le popolazioni locali le scacciano dalle loro terre ancestrali, andando a rimpinguare le fila dei profughi e dei migranti economici che poi noi cerchiamo di respingere alle nostre frontiere.

Nell’agosto 2014, i principali donatori di aiuti all’Etiopia – tra cui il governo italiano, il Department for International Development britannico (Dfid), Usaid e l’Unione Europea –  avevano inviato due missioni nella bassa valle dell’Omo per verificare se le tribù fossero state realmente costrette a lasciare le loro terre per far spazio alle piantagioni intensive realizzate da multinazionali e da grandi imprese legate al governo di Addis Abeba, uno dei rapporti stilati dopo e missioni dei donatori denuncia che è probabile che l’afflusso di più di 500.000 lavoratori provenienti da altre aree «conduca a un significativo aumento del rischio di conflitti».

Ma Survival denuncia che «Nonostante gli obblighi imposti dal Freedom of Information Act, il Dfid e il governo di Londra si sono rifiutati di rendere pubblici i due rapporti, sostenendo che la loro divulgazione avrebbe pregiudicato in maniera significativa le relazioni internazionali». Survival, che ne aveva fatto richiesta, si è quindi appellata alla Commissione Europea, che li ha finalmente resi noti.

Survival dice che «Nella lettera ufficiale inviata al governo etiope, e pubblicata nel febbraio scorso, i donatori hanno omesso i risultati più importanti delle loro missioni sul campo. La lettera ammorbidisce le conclusioni dei rapporti a tal punto che la stampa etiope ha potuto scrivere che le missioni dei donatori “non hanno trovato prove di persone costrette ad andarsene per essere reinsediate o per [far spazio] ai progetti agricoli nelle aree che hanno visitato”, e che non hanno “riscontrato nessuno dei problemi di cui parlano Survival International, Human Rights Watch e altri…”».

Invece la lettura integrale  dei due rapporti rivela: «Che il governo etiope non ha ottenuto il consenso delle tribù della bassa valle dell’Omo al reinsediamento; che per costringere le tribù ad abbandonare le loro terre, il governo è ricorso a pressioni e minacce, facendole in alcuni casi anche temere per le loro vite; che un gruppo indigeno ha detto ai donatori, “Prima che possiate tornare l’anno prossimo, il governo verrà a ucciderci e a finirci”; che l’accaparramento di terra associato alle piantagioni su larga scala impedisce alle tribù di accedere ai pascoli e alle terre d’allevamento ancestrali da cui dipendono per sopravvivere, e alle rive dei fiumi di cui hanno bisogno per coltivare; che in merito alle condizioni di vita in uno dei villaggi di reinsediamento visitati, il rapporto afferma: “La loro situazione durante la nostra visita era deplorevole; a causa dell’assenza di servizi igienici, gli abitanti dei villaggi soffrono di malattie come diarrea emorragica, malaria e mal di testa aspecifici… Nonostante le terribili circostanze riscontrate a ‘X’ [nome del villaggio cancellato], i residenti affermano che il governo non permette a questo gruppo impoverito e vulnerabile di andarsene”;  che le linee guida definite dagli enti donatori per garantire che il reinsediamento rispetti la legge internazionale sono state regolarmente ignorate».

Elizabeth Hunter, responsabile delle campagne in Africa di Survival, conclude: «Ci sono voluti quasi due anni perché il Dfid indagasse sulle gravi accuse di violazioni dei diritti umani nella bassa valle dell’Omo. Il Dfid ha cercato disperatamente di impedire che l’opinione pubblica britannica leggesse i rapporti, e questo mostra fino a che punto è in grado di spingersi per coprire le gravi violazioni dei diritti umani commesse da un regime che riceve centinaia di milioni di sterline dai contribuenti britannici. Mentre intere tribù subiscono violenze, vedono distruggere le loro case e i loro mezzi di sussistenza e vengono derubate delle loro terre a livelli scioccanti, il governo britannico chiude un occhio nel nome delle convenienze politiche ed economiche».