La ricerca italiana apre alla possibilità di ottenere piante più resistenti alla siccità

Ildikò Szabò (Università di Padova): «I risultati ottenuti aprono moltissime domande di importanza cruciale nella fisiologia vegetale e possibilmente porteranno a implicazioni rilevanti per l’agricoltura»

[17 Giugno 2019]

La Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione ci pone oggi di fronte a un’evidenza preoccupante: mentre la popolazione mondiale è ancora in crescita, il Joint research centre (Jrc) dell’Unione europea stima che entro il 2050 il degrado del suolo e il cambiamento climatico porteranno a una riduzione dei raccolti globali di circa il 10% e che le diminuzioni maggiori avverranno in India (già oggi il Paese con più denutriti del mondo), Cina e Africa sub-sahariana, dove il degrado del terreno potrebbe dimezzare la produzione agricola. È dunque  probabile che entro il 2050 fino a 700 milioni di persone saranno sfollate a causa di problemi legati alle scarse risorse del territorio, e la cifra potrebbe raggiungere il miliardo entro la fine di questo secolo. Ogni possibilità che la scienza è in grado di mettere in campo per realizzare sistemi alimentari più resilienti alla siccità ha dunque un’importanza cruciale per il benessere dell’umanità, e da questo punto di vista la ricerca italiana ha molto da offrire.

Lo studio A chloroplast-localized mitochondrial calcium uniporter transduces osmotic stress in Arabidopsis, pubblicato sulla rivista Nature Plants e realizzato grazie ai ricercatori dell’Università di Padova, ha infatti identificato una nuova proteina con un ruolo fondamentale nella risposta delle piante agli stimoli esterni, aprendo alla possibilità di ottenere coltivazioni di grande interesse alimentare più resistenti alla siccità.

Come spiegano direttamente dall’Ateneo, i ricercatori hanno identificato una nuova proteina che appartiene alla famiglia MCU (uniporto di calcio del mitocondrio) e chiamata cMCU, in assenza della quale le piante hanno un difetto nella regolazione della chiusura degli stomi (piccole aperture sulla superficie delle foglie, che permettono gli scambi gassosi con l’aria); si difetta così la possibilità di mettere in atto il meccanismo di difesa – riducendo la perdita d’acqua per traspirazione – che scatta quando la pianta percepisce una carenza d’acqua nel terreno. «I risultati ottenuti aprono moltissime domande di importanza cruciale nella fisiologia vegetale e possibilmente porteranno a implicazioni rilevanti per l’agricoltura», commenta la docente Ildikò Szabò.

I risultati di questa ricerca aprono infatti nuovi orizzonti allo studio della resistenza delle piante alla siccità: in un prossimo futuro è ipotizzabile lo sfruttamento del meccanismo qui scoperto per ottenere piante di interesse agrario, come grano o riso, più resistenti allo stress idrico. «Partendo da una ricerca biologica di base, i risultati ottenuti in questo lavoro aprono interessanti prospettive per potenziali risvolti applicativi, mirati all’ottenimento di piante più resistenti agli stress ambientali. Emerge con sempre maggiore evidenza – conclude la professoressa Lorella Navazio –  l’importanza della ricerca sulle piante, in considerazione della loro estrema rilevanza per la vita dell’uomo, per la sua nutrizione, salute, benessere in senso lato».