Ma i Paesi ricchi sono messi meglio di quelli poveri, dove c’è più biodiversità

Antropocene: gli esseri umani hanno completamente alterato la Terra, ma stiamo rallentando

La crescita economica e della popolazione disaccoppiate dall’impronta ecologica umana?

[30 Agosto 2016]

Secondo lo studio “Sixteen years of change in the global terrestrial human footprint and implications for biodiversity conservation”, pubblicato su Nature Communications, l’impatto globale delle attività umane sull’ambiente naturale «è ampio, ma questi impatti antropici si stanno espandendo ad un ritmo più lento rispetto al tasso di crescita economica e demografica».

Lo studio – realizzato da ricercatori dell’università canadese della Northern British Columbia, delle università australiane del Queensland e James Cook University, dell’Eth Zürich, della Estación Biológica de Doñana, dell’Imperial College London, della Columbia University, del City College of New York e della Wildlife conservation society (Wcs) – è la ricerca con la più alta risoluzione e le mappe più complete dell’impatto del cambiamento provocato dall’umanità sull’ambiente terrestre mai pubblicata, e i risultati rivelano una storia complessa di come gli esseri umani stanno alterando gli habitat naturali a livello planetario.

La ricerca rileva però che in qualche modo stiamo “rallentando”: mentre la popolazione globale è cresciuta del 23% e l’economia globale è cresciuta del 153% per cento tra il 1993 e il 2009, l’impronta umana globale è cresciuta solo del 9%. Il principale autore dello studio, Oscar Venter dell’Ecosystem science and management program dell’università della Northern British Columbia, sottolinea: «Vedere che il nostro impatto si è ampliato a un tasso più lento rispetto a quello della crescita economica e demografica è incoraggiante. Significa che stiamo diventando più efficienti nel modo in cui utilizziamo le risorse naturali».

Tuttavia, gli autori del rapporto aggiungono che «mentre gli impatti ambientali non seguono esattamente il tasso di crescita delle economie, sono già spaventosamente ampi». Quasi tre quarti del pianeta sono ancora sottoposti a una pressione misurabile dalle attività antropiche. Un altro autore dello studio, James Watson dell’università del Queensland e della Wcs, spiega: «Le nostre mappe mostrano che i tre quarti del pianeta sono ora significativamente modificati e il 97% per cento dei luoghi biologicamente più ricchi sulla Terra sono gravemente alterati. C’è poco da meravigliarsi se è in corso una crisi della biodiversità».

Lo studio ha anche rivelato che i Paesi con economie in espansione abbiano tutti impatti ambientali crescenti, ma non in modo uniforme. Un altro co-autore, Eric W. Sanderson, uno zoologo conservazionista della Wcs e principale autore dello studio originale sull’impronta umana nel 2002, sottolinea che «è incoraggiante che i Paesi con buone strutture di governo e alti tassi di urbanizzazione siano in realtà cresciuti economicamente, mentre sono leggermente in calo i loro impatti ambientali dovuti all’utilizzo del territorio e delle infrastrutture. Questi risultati permangono anche dopo aver indagato gli effetti del commercio internazionale, il che indica questi Paesi sono riusciti in qualche misura a dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali». Venter conferma: «Lo sviluppo sostenibile è un obiettivo che è stato ampiamente adottato, e i nostri dati dimostrano chiari messaggi di come il mondo può arrivarci: concentrare le persone in metropoli e città, così che le loro esigenze abitative e le infrastrutture non siano distribuite in tutto il territorio più ampio, e promuovere governi onesti che siano in grado di gestire gli impatti ambientali».

Lo studio arriva alla vigilia del World conservation congress dello Iucn – che quest’anno si tiene alle Hawaii –, un meeting  che ogni 4 anni riunisce ambientalisti e leader mondiali: le nuove mappe e i dataset della nuova ricerca sono pubblici, e potranno essere liberamente utilizzati da politici e ricercatori per una vasta gamma di applicazioni, come ad esempio l’individuazione dei siti che sono ancora in gran parte “selvaggi” e che devono essere protetti, nonché per identificare luoghi adatti per il ripristino delle loro funzioni naturali e dei servizi ecosistemici.

Geoff Payne, vice-rettore dell’università della Northern British Columbia, conclude: «Mentre il panorama globale continua a mutare di fronte alla crescita della popolazione e al clima in evoluzione, il lavoro svolto dal dottor Venter e dal suo team avrà un impatto significativo sul campo e sul modo migliore per affrontare i problemi che abbiamo di fronte a livello globale».

Per avere un’idea dettagliata di come le attività umane hanno lasciato il segno sul pianeta, i ricercatori hanno utilizzato i dati satellitari per mappare 8 fattori: gli ambienti costruiti, i terreni coltivati, i pascoli, la densità della popolazione umana, le luci notturne, le ferrovie, le strade e le acque navigabili.  Poi hanno confrontato l’impatto di ciascuno di questi fattori sull’ambiente, rispetto alle altre categorie, per ogni kmq di superficie della Terra (esclusa l’Antartide). Hanno così scoperto che circa il 75% del pianeta è sotto pressione antropica, con le aree che ospitano alti livelli di biodiversità che subiscono la pressione più intensa. Risultati che sono coerenti con la ricerca scientifica che sostiene che gli esseri umani hanno cambiato la Terra a tal punto da aver creato una nuova era geologica: l’Antropocene.

Dunque, nonostante la forte crisi della biodiversità in atto, l’ago della bilancia per lo sviluppo sostenibile inizia a pendere dalla parte dell’ottimismo? Sembra ancora presto per dirlo. Jan Zalasiewicz, docente di paleobiologia all’università di Leicester e presidente dell’Anthropocene Working Group, che non è stato coinvolto nello studio, è intervenuto su ThinkProgress per spiegare che «nel contesto dell’Antropocene, questo tipo di misurazione di come la Terra sta cambiando rappresenta una diversa sfaccettatura. Tutti i cambiamenti di cui stiamo parlando lasceranno una sorta di traccia nel tessuto della Terra. I risultati che mostrano come l’impronta dell’umanità stia aumentando ad un ritmo più lento rispetto alla crescita economica e della popolazione rappresentano certo un motivo di ottimismo, ma le metriche con cui i ricercatori hanno misurato l’impronta umana hanno una portata abbastanza limitata. Per esempio, i ricercatori nel loro calcolo dell’impronta umana non hanno guardato all’aumento di anidride carbonica atmosferica creato dalle attività umane, che caratterizza poi gran parte dei cambiamenti apportati dagli esseri umani sull’ambiente. Alcuni aspetti chiave del sistema Terra non vengono messi a confronto in questo studio, semplicemente a causa della metodologia usata dagli autori. È chiaro che l’aumento della CO2, traducendosi in un aumento della temperatura, sta amplificando l’effetto dell’impronta umana a livello globale». Altri dati, assai sensibili, inducono a riflessioni più pessimiste di quelle contenute nello studio pubblicato su Nature Communications. Uno su tutti, quello relativo all’estrazione e consumo di materie prime, che dal 1970 al 2010  è passato da 22 a 70 miliardi di tonnellate l’anno, con l’attesa di un possibile e ulteriore +300% da qui al 2050.

La ricerca che ha trovato spazio su Nature Communications – pur non difettando certo di autorevolezza – basa la sua analisi su dati satellitari, mancando così di analizzare altri impatti antropici, come l’inquinamento delle acque prodotto dalle attività agricole o l’inquinamento atmosferico prodotto da auto, centrali elettriche e altri inquinanti, anche se alcuni di questi elementi di pressione antropica potrebbero essere strettamente collegati a fattori che i ricercatori hanno misurato nella loro analisi, come l’espansione urbana o dell’agricoltura. Ecco dunque che gli autori ribattono alle critiche facendo notare che «la loro esclusione non limita in generale lo studio».

Il giudizio in merito, come evidenziato, rimane però tutt’altro che unanime. In ogni caso, da qualsiasi prospettiva lo si osservi, lo studio evidenzia un altro grosso problema: le attività antropiche non sta avendo lo stesso impatto in tutte le regioni del mondo: mentre nei Paesi più ricchi l’impronta antropica sembra in diminuzione, in altri luoghi, in particolare in quelli più ricchi di specie viventi, si assiste ad un aumento della pressione. Venter però rimane fiducioso, e in un’intervista al National Geographic conclude: «Penso che guardando a quelle  parti del pianeta che sono ancora selvagge si troveranno i modi per mantenerle così come sono: come mantenerle libere dagli esseri umani dovrebbe essere qualcosa a cui pensare seriamente».