Caro Atc, ma quanto mi costi! Tutti gli sprechi di un ambito territoriale di caccia

[27 Novembre 2015]

Discutendo della problematica gestionale della specie cinghiale, è stata stigmatizzata la totale inerzia degli ambiti territoriali di caccia che, a dire della l. 157/1992, avrebbero l’obbligo di “provvedere al mantenimento e al ripristino degli habitat naturali favorevoli alla riproduzione della fauna selvatica”, ma che invece appaiono degli enti pubblici lottizzati dalle associazioni venatorie e preposti unicamente al cronico e insostenibile sperpero di denaro pubblico per i costosissimi “lanci di selvaggina”.

La disamina del bilancio consuntivo di un medio ambito territoriale ne è la piena dimostrazione.

E ciò, premettendo, sempre in forza della dannosa e non più sostenibile l. 157/1992, che gli unici enti preposti alla gestione faunistico-venatoria sono le regioni, le province (!) e, appunto, gli ambiti territoriali di caccia (comprensori alpini/riserve comunali, in “Zona Alpi”, ma questi fan quasi storia a parte).

Dunque, mano ai conti (consuntivo 2014)! Quest’ambito preso ad esempio, prevalentemente di media collina, che si estende dal livello del mare sino alla quota base di un parco nazionale senza aree contigue, ove non si svolge alcun prelievo degli ungulati diverso dalla caccia collettiva al cinghiale, in un territorio ove sono state molteplici le ordinanze sindacali di abbattimento di cinghiali, e dove le proteste degli agricoltori sono al calor bianco, riceve a titolo di quote d’iscrizione (in media € 60) dei cacciatori residenti e ammessi 214.000 €. Riceve altresì € 96.000 a titolo di contributi pubblici, di cui ben € 40.000 per la “prevenzione dei danni da cinghiale”. A fronte di tali entrate, la differenza con le spese (per € 220.000) racconta matematicamente di un utile di ben € 95.000.

Gestione virtuosa? No, assolutamente contra legem, posto che il semplice pareggio di bilancio dovrebbe essere perseguito impiegando le risorse per le finalità prioritarie di cui all’art. 14 l. 157/1992, fra cui: “le coltivazioni per l’alimentazione naturale dei mammiferi e degli uccelli, il ripristino di zone umide e di fossati; la differenziazione delle colture; la coltivazione di siepi, cespugli, alberi adatti alla nidificazione, la tutela dei nidi e dei nuovi nati di fauna selvatica nonché dei riproduttori, la collaborazione operativa ai fini  del tabellamento, della difesa preventiva delle coltivazioni passibili di danneggiamento, della pasturazione invernale degli animali in difficoltà, della manutenzione degli apprestamenti di ambientamento della fauna selvatica, l’erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché la erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi”.

Invece si trova la spesa di: € 102.000, suddivisa quasi in parti uguali, per l’acquisto di lepri e fagiani; € 22.000 per il pagamento degli stipendi del personale di segreteria; € 21.000 per consulenze; € 15.000 per il “comitato di gestione” (composto quasi nella totalità da rappresentanti di associazioni venatorie, anche qualora nominati da associazioni agricole o enti locali); € 8.000 per la sede; € 6.000 per telefoniche e cancelleria, e così via …

Soltanto € 8.000 sono state spese per le c.d. “colture a perdere”, di cui € 1.000 per l’abbattimento dei “predatori” (volpi, corvidi). Compaiono altre € 8.000 per la “gestione del territorio”, di cui solo € 5.000 per “corsi di aggiornamento” (cioè, ad esempio, corsi abilitanti i cacciatori alla caccia notturna alle volpi).

Fra le altre spese, comunque non vi è traccia di corrispondenza con i dettami di cui agli obblighi gestionali di legge. Basta immaginare il numero complessivo degli Atc in Italia, ben superiore a quello delle province, per rendersi conto della dimensione e della importanza della questione. Pur senza aggiungere alcuna ulteriore considerazione di merito, i numeri parlano da soli.