Il commercio di fauna selvatica causa un calo del 62% nell’abbondanza di specie

Sotto attacco anche le aree protette e le specie in via di estinzione che subiscono un calo di oltre l'80%

[17 Febbraio 2021]

Tra gli esempi più noti dell’effetto del commercio illegale di specie ci sono il declino degli elefanti africani dovuto al traffico  di avorio, quello dei rinoceronti per i loro corni e la scomparsa delle specie di pangolino in Africa e in Asia. Ma nel mondo, ogni anno, almeno 100 milioni di piante e animali sono oggetto di traffico internazionale e si dice che il commercio internazionale di animali selvatici sia un big business che valga tra i 4 e i 20 miliardi di dollari all’anno.

Secondo il nuovo studio “Impacts of wildlife trade on terrestrial biodiversity”, pubblicato su Nature Ecology & Evolution da un team di ricercatori delle università di Sheffield, Florida –  Gainesville e Norges miljø- og biovitenskapelige universitet, «Il commercio internazionale di specie selvatiche sta causando un calo di circa il 62% nell’abbondanza di specie, con le specie in via di estinzione che subiscono un calo di oltre l’80%. Sebbene esistano politiche che gestiscono il commercio, senza una ricerca sufficiente sugli effetti del commercio di fauna selvatica queste politiche non possono pretendere di salvaguardare le specie», ma i ricercatori evidenziano che «Ci sono poche ricerche sugli impatti di questa grave minaccia per la fauna selvatica globale». Comunque, dato che il commercio di specie selvatiche continua a determinare un calo del 56% della biodiversità nelle aree protette, «I risultati evidenziano anche la necessità di migliori misure di protezione per le specie minacciate e di gestione del commercio»,

Uno degli autori dello studio, David Edwards del  Department of animal and plant sciences dell’università di Sheffield, ricorda che «Migliaia di specie vengono vendute per diventare animali domestici, medicine tradizionali e cibi di lusso, ma non era noto come questo influenzi l’abbondanza delle specie in natura. La nostra ricerca riunisce studi sul campo di alta qualità per rivelare una riduzione scioccante nella maggior parte delle specie commercializzate,che causano molte estinzioni locali. La cattura determina cali particolarmente gravi delle specie ad alto rischio di estinzione e di quelle vendute come animali domestici. Livelli così elevati di prelievo suggeriscono che il commercio sia spesso insostenibile, ma gran parte del commercio viene condotto legalmente. Come società, abbiamo urgente bisogno di riflettere sul nostro desiderio di avere animali domestici esotici e sull’efficacia di quadri giuridici progettati per prevenire il declino delle specie».

I ricercatori hanno anche scoperto che «La comprensione di come il commercio di fauna selvatica stia influenzando le specie è gravemente carente nelle nazioni sviluppate e per molti gruppi di animali selvatici che vengono comunemente venduti, nonostante sia uno dei principali fattori di estinzione delle specie».

Secondo Scott Roberton, responsabile dei programmi antitratta della Wildlife Conservation Society, «Questo studio si aggiunge al crescente corpus di prove che il traffico commerciale di fauna selvatica è una minaccia significativa».

In un’intervista a Elizabeth Pennisi su Science, Edwards  fa notare che «Per decenni, molti ambientalisti hanno affermato che il traffico di specie selvatiche sta portando all’estinzione di alcune specie. Ma altri hanno sostenuto che il commercio può spesso essere sostenibile». Per  capire chi aveva ragione,

Edwards, il principale autore dello studio, Oscar Morton Morton e i loro colleghi hanno messo insieme 331 studi ed esaminato sia le popolazioni di animali selvatici nelle aree in cui è presente un’attività di caccia e cattura, sia quelle che vivono in aree dove non c’è o non dovrebbe esserci. Ne è venuto fuori il racconto del destino di esemplari appartenenti a 133 specie: 452 mammiferi appartenenti a 99 specie, 36 uccelli di 24 specie e 18 rettili di 10 specie.  I ricercatori hanno quindi costruito modelli per valutare l’impatto che una varietà di fattori potrebbe avere sulle popolazioni di queste 133 specie e che includevano quanto una specie veniva commerciata e se per trasformarla in cibo, medicine tradizionali o qualcos’altro  e quanto lontano la specie viveva dagli insediamenti umani e dai potenziali mercati. Hanno anche esaminato se la specie viveva in un’area protetta o non protetta.

Morton, che sta facendo un dottorato al Department of animal and plant sciences dell’università di Sheffield. Sottolinea che «Laddove avviene il prelievo per il commercio di fauna selvatica, abbiamo riscontrato un forte calo nell’abbondanza di specie. Questo evidenzia il ruolo chiave che il commercio mondiale di fauna selvatica svolge nel rischio di estinzione delle specie. Senza una gestione efficace, tale commercio continuerà a minacciare la fauna selvatica. Per una minaccia così grave per la fauna selvatica globale, abbiamo scoperto dati relativamente limitati sugli impatti del commercio di fauna selvatica in Asia, Nord America ed Europa, nonché una mancanza di dati per molti anfibi, invertebrati, cactus e orchidee, nonostante questi gruppi vengano venduti spesso».

Il team di ricercatori britannico, statuinitense e norvegese ha scoperto che il calo dell’abbondanza è stato peggiore per le specie vendute come animali domestici, ma un forte calo è causato anche dal commercio di carne di selvaggina, quindi dalla caccia legale e illegale.

David Wilcove, un biologo dell’università di Princeton che non ha partecipato allo studio, ha commentato su Science: «Per quanto ne so, questa è la prima volta che un team di scienziati ha tentato di sintetizzare le informazioni esistenti su ciò che il commercio di fauna selvatica sta facendo alle popolazioni selvatiche. Ma le 133 specie che ha valutato sono solo la punta dell’iceberg. Ci sono migliaia di specie vendute per le quali non abbiamo la minima idea di cosa stiamo facendo alle loro popolazioni in natura».

Lo studio evidenzia anche una lacuna nella ricerca sulla fauna selvatica: la maggior parte dei 31 studi si concentrava sui mammiferi e non ce n’erano su invertebrati, anfibi o piante come orchidee e cactus, tutti organismi che vengono venduti in milioni di esemplari ogni anno. Bager Olsen, una biologa dello Statens Naturhistoriske Museum della Danimarca fa notare che «Inoltre, c’erano solo 4 studi in Asia, un grande hot spot del commercio di fauna selvatica. Tali lacune sottolineano la necessità di una maggiore diversificazione nelle aree di studio».

Nel complesso, il team di ricercatori britannici, statunitensi e norvegesi ha scoperto che le specie studiate erano meno abbondanti se vivevano in aree prive di protezione: «Senza guardiacaccia per imporre quote o confini, ad esempio, le  popolazioni sono diminuite del 65%. Nelle aree in cui gli animali venivano scambiati per il cibo (carne di animali selvatici), la popolazione è diminuita di quasi il 60%. E nei luoghi in cui animali come gli uccelli canori venivano intrappolati per essere venduti come animali domestici, il calo della popolazione potrebbe raggiungere il 73%».

Edwards evidenzia che «Più i siti di studio erano vicini agli insediamenti umani, maggiore era il calo dell’abbondanza. Per 83 dei 506 esemplari studiati, le specie cacciate erano completamente scomparse dall’area di studio.  Ma anche nelle aree protette il calo è stato drammatico, con una diminuzione della popolazione del 39%. La conclusione dello studio è che il commercio di fauna selvatica spinge le specie verso il declino, spesso in modo grave, anche all’interno delle aree protette. Abbiamo controllato un’intera gamma di metodi diversi e abbiamo sempre riscontrato questi grandi e significativi cali».

Steve Broad, direttore esecutivo di TRAFFIC, è cauto riguardo alle conclusioni. Si chiede, ad esempio, se «Potrebbero esserci altre ragioni – come il degrado o la perdita dell’habitat – per il declino delle specie osservato in alcune aree» ma concorda sul fatto che gli sforzi di conservazione trarrebbero beneficio da una migliore comprensione di tali questioni. Sarà interessante scavare più a fondo».