Il nodo gordiano del piano per il parco

I parchi nazionali riflessi sullo stagno della legge quadro

[24 Settembre 2015]

A quasi ventiquattro anni dalla pubblicazione della legge quadro sulle aree protette sono ancora tanti i nodi irrisolti sul banco della prassi applicativa. Il legislatore aveva immaginato di rovesciare l’impostazione del sistema previgente, fatto di divieti ed autorizzazioni, in favore di una tutela integrale costruita in negativo: nel senso che ogni intervento, o meglio, ogni attività, non individuata dal piano per il parco come consentita deve intendersi vietata.

Protezione integrale, demolizione di qualsiasi ipotesi di valutazione comparativa degli interessi coinvolti, supremazia della tutela della natura e annullamento della discrezionalità dell’ente parco: queste le finalità primarie vergate a chiare lettere nel testo normativo.

Dalla teoresi alla realtà, però, spogliandosi da finte maschere d’ideologia, il cammino appare impossibile o quasi. Le regole del gioco, infatti, varrebbero senza problemi qualora i parchi fossero delle isole di wilderness, a bassissima componente antropica, e da recuperare o semplicemente conservare.

Ma non è così. Nei confini dei parchi, disegnati ben prima o anche ben dopo la legge 394 vi sono stati ricompresi centri urbani, distretti industriali, strade di ogni tipo, bacini idroelettrici, comprensori sciistici, elettrodotti, dighe, impianti sportivi. Siffatta regola contempla anche le doverose eccezioni: qualche volta il confine ha stranamente escluso delle enormi e deturpanti cave in attività.

Ora, vi è che dovendosi rispettare il principio della costruzione in negativo delle attività “consentite”, e non già di quelle vietate, in particolar modo per le zone C e D (ma non solo, immaginando la tipologia delle attività comunque praticabili sul territorio dell’area protetta), il piano per il parco dovrebbe assurgere ad un vero e proprio catalogo di attività permesse, anzi ad un abecedario, delle dimensioni (posto il medesimo carattere di stampa) di un elenco telefonico delle più popolose città italiane.

Per la peculiare costruzione normativa, anche il semplice birdwatching è vietato, se non espressamente individuato, dal piano, fra le attività consentite. Al regolamento il mero compito di disciplinare l’esecuzione delle attività consentite dal piano.

Allora, come anticipato, fintantoché ci si riferisce ad una wilderness piena, come nel caso del Parco nazionale Svizzero, nulla quaestio. Ma allorquando il piano per il parco, particolarmente rigido per la sua revisione e di farraginosa e lunga approvazione, deve calarsi su luoghi dove per forza di cose l’attività antropica è “normale” al 100%, si verifica una soluzione di stallo dalla duplice soluzione: o si deroga in fatto all’inversione recata dal piano, cioè si chiudono gli occhi dinanzi all’effettuazione di attività non ricomprese nello pseudo elenco telefonico, oppure si sanziona qualsiasi comportamento non assentito.

Dinanzi a quest’impasse è accaduto che gli edificatori dei piani per i parchi hanno spesso perso la bussola, continuando a picchiare sulla tastiera dei loro pc divieti, generali o specifici ed arrivando persino a ritenere, per alcune materie,compito del regolamento individuare le attività consentite e non già la loro disciplina.

Molti piani recano il copia-incolla dei c.d. “divieti a prescindere” di cui all’art. 11 della l. 394: del tutto inutile, stante la superiorità gerarchica della fonte legislativa. O si specializzano nell’enucleare divieti precisi, specifici e determinati: del tutto inutile anche questo, per il menzionato meccanismo in forza del quale tutto ciò che non è consentito deve intendersi vietato.

Spesso, è anche confuso il ruolo del nulla-osta. La l. 394, infatti, fra le altre cose ha inteso eliminare ogni discrezionalità amministrativa dell’ente parco, ingabbiandola nel potere regolamentare recato da piano e regolamento, che funzionano come una “dima”, o come dei sovrapposti tramagli. In questo senso (e l’art. 13 è chiarissimo) tutte le attività che devono compiersi all’interno del territorio dell’area protetta vengono assoggetate ad un vaglio automatico, costituito dalla coincidenza, con il piano, per quanto attiene alle attività (individuate come) consentite, ed al regolamento, per quanto attiene alle “mere” modalità di svolgimento. Eppure i fantasmi del passato aleggiano ancora e molti si barcamenano nel riprodurre, in piano e regolamento, il concetto di “autorizzazione”, che la l. 394 aveva ucciso e seppellito. L’autorizzazione riproduce il modello, ex l. 241 di un provvedimento ad hoc e discrezionale della p.a., proteso a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto. Non ha nulla a che fare con il nulla osta. Ciò nonostante, si ripropone come certe pietanze dopo un pranzo indigesto.

Anche il regolamento, questo sconosciuto, dovrebbe avere un pacifico contenuto predeterminato per legge. Eppure spesso è un florilegio di divieti. Ma come? Che bisogno c’è? Non è vero che sono vietate, a rigor di legge, tutte le attività che non sono espressamente consentite dal piano? Il regolamento deve solo disciplinare le “modalità” di esecuzione delle attività consentite dal regolamento, non certo enucleare divieti. Anzi, il regolamento, invece, può stabilire le deroghe ai divieti di cui al comma 3 dell’art. 11 l. 394.

Ora, in forza del principio generale della rispondenza degli atti amministrativi alle previsioni di legge, vi sarebbe la palese illegittimità di tutte quelle previsioni, contenute in piano e regolamento, che non solo siano in diretto contrasto con la legge, ma anche che non siano consentite dalla stessa, quanto ai contenuti positivi. E così è viziato (e censurabile in sede di giurisdizione amministrativa) un piano ed un regolamento che contengano divieti o che prevedano l’autorizzazione accanto al nulla osta.

In medio stat virtus: lavorando con sapienza (e competenza), fra le disposizioni della l. 394, è possibile gestire una pianificazione che arrivi ad individuare esattamente le attività consentite. Basta solo avere una cognizione molto netta del territorio e dei suoi usi, da avallare o da limitare. L’attrito si verifica per le zone D, ed anche le C (queste ultime appaiono oggi molto destituite di valida utilità). Sarà un caso che nella migliore delle ipotesi in quasi tutti i parchi nazionali esteri al massimo esistono tre zone? E così anche che i centri abitati, insediamenti produttivi, strade, bacini sciistici ecc. siano tenuti fuori dai confini dei parchi e al limite gestiti per mezzo di intese?

Peraltro, un soggetto internazionale come l’Iucn si è prodigato a stilare un protocollo di classificazione delle aree protette, al fine di stabilirne una tipologia, in uno con gli obiettivi e le regole fondamentali, che possa dirsi valido per l’intero globo terrestre.

Applicando i criteri Iucn alla maggior parte dei parchi italiani, sulla base delle previsioni della l. 394 e nella pericolosa mistura con le perimetrazioni sovente poco ponderate, vi è che la maggior parte di questi, pur presentando valori naturalistici ed ecologici assoluti, in realtà possono essere classificati soltanto come Cat. V – Protected landcapes …: e cioè “paesaggi” protetti!

Non può dirsi secondario questo obiettivo, nell’ottica di un aggiornamento della legge quadro sulle aree protette. Non possiamo rimanere indietro, rispetto ai più elevati standard europei ed internazionali.

Per giunta, sotto un profilo di gerarchia delle fonti del diritto e di successione delle leggi nel tempo, non si può non affrontare con decisione il problema delle Aree Natura 2000 insistenti nel territorio dei parchi. Anche per questo la l. 394 fa acqua, salvo a voler ammettere la priorità, com’è d’obbligo, della disciplina delle Aree Natura 2000, quale integrativa in automatico dei piani per il parco, in modo da costituirne obbligatoriamente parte integrante. E ciò, sovrapponendosi un doppio livello di tutela, a seconda che ci si collochi nel territorio del parco ed in una delle aree natura 2000, o “soltanto” nei confini del parco.

Anche in questo ultimo caso, una certa “sapienza” costruttiva del piano per il parco può risolvere il problema, che però permane a livello strutturale.