In Gran Bretagna sono in via di estinzione più di un quarto dei mammiferi

Una specie su 7 è minacciata di estinzione e il 41% è in declino dal 1970

[4 Ottobre 2019]

Il rapporto “State of Nature 2019” aggiorna tutto quel che si sa sullo stato delle popolazioni – in termini di numeri o distribuzione – di oltre 7.000 specie di animali, piante e funghi nel Regno Unito e la dura realtà è che il 41% delle specie di cui può essere stimato il numero sta diminuendo moderatamente o fortemente rispetto al 1970 e una specie britannica su 7 è minacciata di estinzione.

Il rapporto, che attinge ai dati forniti da 70 diverse organizzazioni che comprendono 50 associazioni ambientaliste e diverse agenzie governative, lancia un forte allarme riguardi ai mammiferi: il 26% delle specie rischia di estinguersi. Nell’indipendentista Scozia le cose vanno un po’ meglio: ha visto un calo del 24% nell’abbondanza media di specie e circa una specie su 10 è a rischio estinzione.

Da State of Nature 2019 viene fuori che nel Regno Unito sono andate perse un quarto delle falene e quasi una farfalla su cinque e i loro numeri continuano a precipitare. Quasi una pianta su cinque è classificata a rischio di estinzione, insieme al 15% dei funghi e licheni, al 40% dei vertebrati e al 12% degli invertebrati.

E’ quello che gli ambientalisti chiamano “il grande diradamento”, con il 60% delle “specie prioritarie” in declino dal 1970 e un calo medio del 13% nell’abbondanza delle specie studiate. Ma i ricercatori hanno anche scoperto che la fauna selvatica britannica sta cambiando sempre più rapidamente: negli ultimi 10 anni oltre la metà delle specie è diminuita rapidamente o aumentata di numero.

Il principale autore del rapporto, Daniel Hayhow della Royal society for the protection of birds (Rspb), ha detto: «Sappiamo di più sulla fauna selvatica del Regno Unito rispetto a qualsiasi altro Paese del pianeta, e ciò che ci sta dicendo dovrebbe farci fermare ad ascoltarla. Dobbiamo rispondere più urgentemente su tutta la linea». All’RSpb sottolineano che «Delle 8.418 specie valutate, il 15% è ora a rischio di estinzione. Qeste includono i gabbiani rissa, gli skua artici e i gatti selvatici scozzesi. Tuttavia, non ci sono solo cattive notizie: decine di migliaia di volontari hanno raccolto i dati per il rapporto, semplicemente per amore della natura. Grazie a loro, è stato reso possibile, ma è chiaro che c’è ancora molto da fare». Rosie Hails, direttrice scienza e natura del National Trust, aggiunge: «La fauna selvatica del Regno Unito è in gravi difficoltà … ora siamo a un bivio: dobbiamo mettere insieme le azioni piuttosto che le parole. Abbiamo bisogno, da parte del nostro governo e di altri, di un nuovo solido insieme di leggi ambientali che ne tengano conto e che fissino obiettivi a lungo termine e ambiziosi».

Lo studio cita l’agricoltura intensiva come fattore chiave della perdita di specie: «Anche se questo ha portato a una maggiore produzione alimentare, ha anche avuto un impatto drammatico sulla biodiversità dei terreni agricoli» e in Gran Bretagna tra il 1990 e il 2010 le aree coltivate trattate con pesticidi sono aumentate del 53%. Invece l’agricoltura wildlife-friendly, sostenuta dagli agri-environment schemes (AES) finanziati dal governo, «potrebbe aver contribuito a rallentare il declino della natura ma non è stata sufficiente per arrestare e invertire questa tendenza».

Minette Batters, presidente della National Farmers Union ha risposto che «L’agricoltura ha già intrapreso un lungo viaggio per proteggere e mantenere l’iconica campagna britannica; una grande mole di lavoro è stata fatta per migliorare i nostri territori, a beneficio del suolo e delle acque e incoraggiare la fauna selvatica e gli uccelli delle terre coltivate: quest’anno sono state registrate 140 diverse specie di uccelli nelle fattorie durante il Big Farmland Bird Count. Nei prossimi 30 anni gli agricoltori dovranno produrre più cibo per soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita, utilizzando meno terra, meno acqua e meno input agricoli».

Il rapporto evidenzia l’impatto che stanno avendo sulle specie viventi i cambiamenti climatici e ricorda che, secondo il Met Office, dal 2002 ci sono stati i 10 anni più caldi mai registrati del Regno Unito. Insomma, «Il cambiamento climatico sta portando a cambiamenti diffusi nell’abbondanza, nella distribuzione e nell’ecologia della fauna selvatica del Regno Unito e continuerà a farlo per decenni o addirittura secoli a venire». Gli autori del rapporto fanno anche notare che negli ultimi 40 anni nel Regno Unito molte specie di uccelli, farfalle, falene e libellule hanno spostato il loro areale verso nord, spostandosi, in media, di 20 km per decennio. Anche il riscaldamento dei mari ha causato problemi, con forti cambiamenti nella composizione del plancton e nella distribuzione dei pesci.

Secondo Tony Juniper, presidente di Natural England, «Il rapporto dipinge un quadro netto dello stato di alcune delle nostre specie più amate. Queste perdite sono importanti in quanto rappresentano un disfacimento della rete da cui dipendiamo».

David Noble responsabile sviluppo strategico del programma di monitoraggio del British Trust for Ornitholog (BTO) ricorda che «Questo è il terzo rapporto State of Nature in 6 anni e una domanda ovvia è: cosa c’è di nuovo? Le cose peggiorano ancora, ma lo sappiamo? In un certo senso, la risposta è sì, in quanto per la maggior parte dei gruppi tassonomici il livello di declino nell’ultimo decennio è altrettanto ripido o più ripido della tendenza più a lungo termine (che in genere risale ai primi anni ’70, quando iniziò molta della registrazione biologica). E alcune metriche sono leggermente peggiori rispetto a quanto riportato l’ultima volta (nel complesso il 58% delle specie è in declino rispetto al 56%) sebbene sia necessario prendere in considerazione il maggior numero di gruppi di specie valutati nel rapporto del 2019. Ma il numero quasi equivalente di specie in aumento dimostra che la storia è più sfumata. Quello che stiamo vedendo a tutti i livelli è un rapido e significativo cambiamento nella fauna selvatica che vive in questo Paese, con alcune specie che sembrano beneficiare degli attuali cambiamenti nel nostro ambiente, mentre altre non sono in grado di affrontarli e sono in rapido declino. La verità è che i territori nel Regno Unito sono stati modificati in modo significativo per secoli dall’umanità e che le aree naturali sono molto rare rispetto all’elevata percentuale dedicata all’agricoltura (oltre il 70%), nonché agli insediamenti urbani e costieri. Ciò significa che la maggior parte delle nostre attuali specie di animali selvatici si è adattata in misura maggiore o minore alla vita in questo tipo di ambienti, sia ai bordi di strade, siepi o colture come lo colza. La woodland, che dominava il territorio nei tempi antichi, attualmente copre il 13% del territorio del Regno Unito e sta lentamente aumentando. Tuttavia, molte specie boschive – e in particolare gli uccelli – sembrano in grado di occupare aree adatte in altri habitat, come giardini, purché ci siano alberi, siepi o altre strutture legnose».

Infatti, c’è anche un dato positivo: un quarto delle specie studiate del Regno Unito è aumentato, compresi i tarabusini e la grande farfalla blu. Un altro successo delle iniziative delle associazioni ambientaliste è stato il ritorno della martora, uno dei mammiferi più rari in Gran Bretagna, nella Foresta di Dean. Una reintroduzione avvenuta sotto il controllo del Gloucestershire Wildlife Trust e di Forestry England.

Inoltre, il sostegno dell’opinione pubblica alla conservazione della natura ha continuato a crescere e dal 2.000 il tempo messo a disposizione dai volontari ambientalisti britannici è aumentato del 40% dal 2000, arrivando a circa 7,5 milioni di ore. Anche i giovani volontari di Action for Conservation (AFC), sono stati coinvolti nella stesura di “State of Nature 2019” e la quindicenne Danny ha detto a BBC News: «Sono coinvolta nella conservazione perché volevo vedere più animali selvatici dove vivo e spero di invertire alcune delle tendenze devastanti che stiamo vedendo in questo momento, quando si tratta di clima e biodiversità. Penso che la cosa più importante che i giovani possano fare per aiutare l’ambiente sia educare gli adulti che li circondano, esercitare pressioni sulle persone responsabili e mostrare agli altri giovani che anche le piccole azioni possono avere un grande impatto. I giovani comprendono l’urgenza della situazione in cui ci troviamo e siamo pronti ad affrontare la sfida».

Noble ricorda però che «Alcuni driver evidenziati in questo rapporto stanno peggiorando. Le specie non autoctone, inclusi parassiti e patogeni degli insetti agricoli e forestali, continuano a colonizzare la Gran Bretagna e molti degli alloctoni che sono già qui si stanno diffondendo e stanno avendo un impatto maggiore. Il cambiamento climatico è ovviamente il problema più grave, con la sua capacità di trasformare completamente o distruggere potenzialmente in futuro i territori più vulnerabili in futuro. Stando qui, all’estremità nord-occidentale dell’Europa, finora abbiamo visto almeno tanti effetti “positivi” dei cambiamenti climatici negativi, dato che le specie europee si sono diffuse verso nord e hanno iniziato a colonizzare la Gran Bretagna. Ma questo modello ampiamente positivo cambierà e questo è già evidente in altre parti del mondo. Questa crisi è inequivocabilmente articolata dall’attivista per i cambiamenti climatici Greta Thunberg e rafforzare il messaggio sulla portata del problema è un motivo importante per la produzione di questi rapporti. Ma abbiamo anche più prove dei successi nella conservazione e dobbiamo urgentemente basarci su quelli. Questo è essenziale se vogliamo essere all’altezza delle speranze e delle aspirazioni più ottimistiche per il futuro della natura espresse in questo rapporto da un gruppo eterogeneo di giovani ambientalisti, quelli che in futuro saranno i più colpiti».