Lo scempio di Rimercojo. Ferruzzi: creare sinergie per difendere il territorio

«Si tratta di salvare ciò che già esiste senza intaccare la natura stessa del luogo»

[26 Gennaio 2021]

Riguardo allo scempio perpetrato, in questi ultimi giorni, con violenza sulla nostra eredità come Paolo Ferruzzi in prima persona e come Accademia del Bello ritengo sia opportuno creare delle sinergie assieme a Legambiente e Italia Nostra e Fondazioni e Associazioni che da tempo operano sul Territorio al fine di far rispettare e amare il nostro Territorio e la nostra Storia e per “pungolare continuamente” le Istituzioni ufficiali atte a tutelare quanto ci è stato tramandato da coloro che ci hanno preceduto. A questo accomuno illustre figure della Cultura che in tempi recenti e meno hanno manifestato lo stesso sentimento come i prof.ri Giuseppe Tanelli dell’Università di Firenze, Franco Cambi dell’Università di Siena, dell’archeologo Michelangelo Zecchini e dello storico Silvestre Ferruzzi (e se qualcuno non si ritrova in questo elenco sappia che non è per esclusione voluta). Da sempre, come Paolo Ferruzzi, ho sostenuto questo ideale proponendo e proponendomi con progetti, con articoli, con libri, con convegni da me organizzati come quelli di Italia Nostra negli anni ‘ 70 del secolo e del millesimo scorso. Di seguito riporto uno stralcio dei miei interventi e anche del Progetto ampio e dettagliato che fu “burocraticamente” presentato e protocollato e naturalmente senza avere alcun riscontro. Forse i “Tempi” non erano ancora maturi ma , mi chiedo, ci devono essere i “Tempi maturi” per amare e salvaguardare la propria Storia e la propria Memoria e soprattutto per rispettare chi ci ha consegnato questo patrimonio?

Da il Convegno e Progetto sopracitato (fine anni 1970) riporto : “….I loro toponimi, Gualdo, Cadonno ed altri, non solo fanno pensare a una presenza della civiltà longobarda ma gli stessi significati, Bosco Sacro, Casa del Signore, dimostrano l’insistenza della presenza religiosa sugli stessi luoghi.

La constatazione, appunto, di questo abbandono dovuto, nel tempo, al variare degli interessi e delle direttive politiche, è lo stimolo maggiore per tentare di riattivare un bene che la nostra cultura ha nel passato prodotto e la nostra cultura ha ora il dovere di salvare.

È sufficiente ripercorrere gli antichi tracciati che attraverso san Lorenzo portano ai due centri abitati principali per vedere quanto l’uomo aveva saputo pazientemente costruire: parliamo degli orti con i loro muri a “ secco “, i percorsi ordinati, la disposizione che segue l’orografìa del terreno.

Era lungo i fossi che si fondevano le due culture: quella contadina con i suoi orti e le sue colture agricole e quella industriale (se così possiamo definirla) che trovava in quelle profonde vallate ciò che era indispensabile alla prima fusione del ferro. Acqua e legna non mancavano, e vivace deve essere stata l’attività ferriera dagli etruschi fino ad epoche più recenti se si considerino i “ forni “ e le scorie rimaste, dove almeno non sono potuti giungere camions e ruspe per recuperare ciò che altri, nella loro pur efficiente tecnologia, non avevano saputo sfruttare al massimo.

Inserendo questi percorsi in una prospettiva più ampia, daremmo, oggi, a queste culture l’opportunità di vivere nuovamente e non nella maniera raggelata tipica del museo. In una società fortemente consumistica come la nostra si tende, almeno in teoria, a ritornare verso la natura e i suoi prodotti. E allora perché la cosa pubblica che gestisce il territorio (altri paesi ci insegnano questo) non distribuisce la fascia demaniale che si sviluppa lungo i fossi ai privati che lo richiedono affinché, dietro un affitto simbolico – gli Statuti di Poggio e Marciana del XVI°, XVII° e XVIII° secolo imponevano tale uso – possano ridare forma e vita alle magnifiche strutture che delimitano orti e campi? Lo scopo non è evidentemente quello di proporre una fascia territoriale di industrializzazione ortofrutticola, ma piuttosto quello di riportare a nuova vita luoghi e percorsi a torto obliati. Gli antichi tracciati riacquisterebbero così la loro identità precisa e non quella artefatta a scopi esclusivamente turistici dove, spesso, lo stesso turista si sente «estraneo». I lastricati che risuonarono dei passi degli antichi contadini e dei primi lavoratori del ferro, dei monaci, dei pirati e degli invasori, potrebbero di nuovo portarci attraverso le molteplici prospettive che si offrono lungo le pendici delle valli in mezzo ad una ricca vegetazione che corre dal castagno al marrone, dal leccio all’acacia, dall’erica scopacea all’ontano, per finire nella bassa macchia mediterranea, nella vigna degra­dante verso la marina, tutte essenze che in pittoresco miscuglio coesistono nella piana di San. Lorenzo.

E certo che l’interesse storico non si sollecita soltanto apponendo il regolamentare segnale turistico di colore giallo, ma operando nella maniera giusta e sovvenzionando i restauri per le opere giuste.

Si tratta di salvare, occorre ribadire, ciò che già esiste senza intaccare la natura stessa del luogo operando… etc etc etc. TUTTO QUESTO PROGETTATO E PROPOSTO 50 (dicasi cinquanta) anni fa.

di Paolo Ferruzzi

Accademia del Bello

Precedentemente docente presso Accademia di Belle Arti di Roma