Ma l’ultima frontiera della Terra è minacciata

Negli oceani ci sono molti più pesci del previsto?

Fino ad oggi si pensava che lo stock totale di pesci del pianeta fosse intorno a 2 miliardi di tonnellate

[18 Febbraio 2014]

Secondo la ricerca “Large Mesopelagic Fish Biomass and Trophic Efficiency in the Open Ocean” pubblicata nei giorni scorsi da  Nature Communications, la biomassa dei pesci mesopelagici sarebbe addirittura 10 volte di più di quanto d fino ad oggi stimato. Quindi, per il team di ricercatori spagnoli, sauditi, australiani e norvegesi  che hanno partecipato alla “Expedición Malaspina” ci sarebbe ancora molto da pescare, nella fascia di mare tra la superficie e le alte profondità , tra i 200 e i 1.000 metri, visto che «Lo stock  dei pesci mesopelagici, il più abbondante del pianeta, passa da un miliardo a 10 miliardi di tonnellate».

Fino ad oggi si pensava che lo stock totale di pesci del pianeta fosse intorno a 2 miliardi di tonnellate, ma il team internazionale capeggiato dall’oceanografo  spagnolo Xabier Irigoien ha ricalcolato la biomassa dei pesci che vivono nel buio degli oceani e che risalgono in superficie per alimentarsi durante la notte, effettuando quella che può essere considerata la più grande migrazione di massa del pianeta. Sono questi gli animali che sono alla base dell’alimentazione dei tunnidi ma che però non hanno un grande valore commerciale e quindi vengono praticamente ignorati.

Il nuovo studio mette insieme i dati acustici dell’Expedición Malaspina con un modello trofico e conclude che «La biomassa di questi pesci deve essere almeno 10 volte più alta di quanto stimato prima». Ma questa impressionante massa vivente ha anche un altro effetto: «Per alimentarsi in superficie e migrare girnalmente a profondità di più di 500 m i pesci mesopelagici accelerano il trasporto di CO2 nel fondo dell’oceano. Contribuiscono anche ad aumentare il consumo di ossigeno nelle acque profonde».  E qui c’è il collegamento con un’altra ricerca i cui primi risultati sono stati illustrati durante l’iniziativa “Deep-Ocean Industrialization: A New Stewardship Frontier” al meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science (Aaas) terminato ieri a Chicago.

L’oceano profondo, il più vasto dominio della vita sulla terra, è anche l’ambiente meno esplorato, anche se gli esseri umani lo stanno rapidamente e brutalmente invadendo, sfruttando le risorse delle profondità e mettendo a rischi la loro fragile ricchezza di habitat  e servizi eco-sistemici del cui funzionamento  sappiamo ancora molto poco. Secondo Lisa Levin, un’oceanografa e biologa  della Scripps Institution of Oceanography, «Le funzioni vitali fornite dal mare profondo,  dallo stoccaggio del carbonio al nutrimento degli stock di pesci, sono fondamentali per la salute del pianeta. Mentre gli esseri umani aumentano lo sfruttamento dei pesci, di energia,  di minerali e risorse genetiche delle acque profonde, è necessaria una nuova “mentalità di gestione” da parte di tutti i Paesi, settori economici e discipline, per il futuro, la salute e l’integrità dell’oceano profondo»

Negli ultimi 50 anni la popolazione umana è più che raddoppiata  è la domanda di cibo, energia e materie prime dal mare è cresciuta ancora di più, «Allo stesso tempo – dice la Levin – la società umana ha subito enormi cambiamenti e raramente, e forse mai, si pensa che questi interessano il nostro oceano, figuriamoci l’oceano profondo. Ma la verità è che i tipi di industrializzazione che dominavano a terra regnava nel secolo scorso stanno diventando una realtà nelle profondità dell’oceano. Mentre esaurivamo molti stock costieri, i pescatori commerciali si rivolgevano alle acque più profonde».

La Levin sta studiando le profondità oceaniche da 30 anni ed ha visto emergere una nuova minaccia. Quella della ricerca di nuove fonti di energia e di metalli rari e  preziosi, le trivellazioni di gas e petrolio che ormai avvengono abitualmente a più di 1.000 metri di profondità. Ed anche la green economy sta causando l’effetto paradossale di un aumento della ricerca mineraria in acque profonde per estrarre i metalli rari e altri materiali necessari al suo sviluppo.

La Levin fa notare che «Vasti tratti di fondali marini sono ora in concessione per estrarre noduli minerali,  croste, solfuri e fosfati ricchi degli elementi richiesti dalla nostra economia avanzata. L’aumento delle emissioni di anidride carbonica sta esponendo gli ecosistemi delle profondità marine ad un  ulteriore stress da impatti del cambiamento climatico che comprendono temperature più calde, forniture alimentari alterate ed un declino del pH e dei livelli di ossigeno».

Linwood Pendleton, direttore dell’Ocean and Coastal Policy Program al Nicholas Institute for Environmental Policy Solutions della Duke University si è chiesto se «Per l’estrazione dal mare profondo sia possibile un compromesso, il valore di ciò che stiamo estraendo è maggiore del danno. Ci sono modi per estrarre che potrebbero  essere economicamente più costosi, ma che hanno un minore impatto ambientale? Come possiamo riparare al notevole danno che è già stato fatto al fondo del mare attraverso la pesca a strascico, l’inquinamento, ed altre pratiche? Queste sono domande alle quali dobbiamo rispondere, mettendo avanti la  comprensione scientifica all’attività industriale».

Nelle profondità marine, come dimostra lo studio sulla biomassa mesopelagica, c’è un’infinita diversità genetica che ci potrebbe fornire nuovi materiali o terapie per il trattamento delle malattie umane, ma se non proteggiamo questa biodiversità potremmo perdere  queste risorse prima ancora di scoprirle.  Levin sottolinea ancora: «La necessità di preservare gli ecosistemi delle acque profonde di fronte alla crescente industrializzazione delle profondità oceaniche, richiede un nuovo modo “precauzionale” di pensare al mare profondo che promuova una gestione sostenibile, basata sugli ecosistemi, in  tutti i settori industriali e gli ambiti di governance. Abbiamo bisogno di una cooperazione internazionale e di un soggetto che possa supervisionare e  sviluppare la gestione delle profondità oceaniche.  Abbiamo anche bisogno di più fonti di finanziamento della ricerca che possano aiutare a fornire le informazioni scientifiche di cui abbiamo bisogno per gestire il mare profondo. Tutto questo richiederà sforzi che riguardano diverse discipline e il coinvolgimento delle parti interessate in queste discussioni».

Per Cindy Lee Van Dover, direttrice del Marine Laboratory della Duke University, «E’ essenziale lavorare con l’industria e gli enti governativi per  mettere in vigore normative ambientali progressiste, prima che un’industria si stabilisca, invece che dopo che lo ha fatto. Tra 100 anni vorremmo che la gente dica: “Hanno ottenuto questo diritto basandosi sulla scienza che avevano, non si erano addormentati al volante”».

Kristina Gjerde, un consulente marino dell’International Union for Conservation of Nature, ha concluso la conferenza “Deep-Ocean Industrialization: A New Stewardship Frontier” ricordando che «Da un punto di vista giuridico, l’oceano profondo è pieno di contraddizioni.  Le risorse minerarie marine profonde,  situate  oltre i confini nazionali fanno parte del “patrimonio comune dell’umanità” ai sensi del diritto internazionale, ma i pesci e polpi che nuotano appena sopra il fondo del mare non lo sono. Per prevenire danni che non potremmo mai sperare di riparare, devono essere attuate  le norme precauzionali per orientare tutti gli utilizzi umani dell’oceano profondo, al di là dei confini e in tutti i settori».