Sul National Geographic i risultati di un’importante ricerca con l’Italia in prima fila

Perché gli alberi muoiono?

Raggiunta una dimensione limite, gli esemplari sembrano divenire più suscettibili ai disturbi che ne determinano la morte

[15 Ottobre 2020]

Gli alberi sono tra le massime espressioni della longevità sul nostro pianeta, esseri viventi che respirano fin da quando per noi esseri umani era ancora preistoria: ad esempio Methuselah, un esemplare di Pinus longaeva di oltre 5.000 anni fa, vive nella Inyo National Forest negli Usa ed è considerato l’albero più antico del mondo. In Iran il cipresso Cupressus sempervirens Sarv-e Abarkuh ha più di 4000 anni, mentre in Sicilia il castagno dei Cento cavalli c’era già all’inizio del nostro calendario, oltre due millenni fa. Eppure neanche gli alberi più longevi sono immortali.

La ricerca Forest carbon sink neutralized by pervasive growth-lifespan trade-offs, pubblicata su Nature communications, dimostra per la prima volta il carattere universale della relazione inversa fra velocità di accrescimento e longevità negli alberi. Uno studio cui hanno partecipato per l’Italia Alfredo Di Filippo, Michele Baliva e Gianluca Piovesan, ricercatori del laboratorio di Dendroecologia all’Università della Tuscia.

Come spiegano da National Geographic, che con Di Filippo ha attiva una collaborazione di lungo corso, durante lo studio internazionale sono state analizzate oltre 200mila serie di crescita ottenute da 110 specie arboree, aggiungendo importanti conoscenze rispetto a quelle già a disposizione: «In un precedente lavoro sugli alberi temperati decidui dell’Emisfero Nord avevamo già descritto – spiega Di Filippo al NatGeo – come i fattori che riducono la crescita promuovono la longevità negli alberi. Dal Giappone agli Stati Uniti, le specie mesofile (come faggio o aceri) avevano mostrato una diminuzione di 30 anni dell’età massima per ogni aumento di 1°C della temperatura del sito. Come conferma lo studio, le riduzioni di longevità non sono il risultato diretto della temperatura, ma dell’effetto indiretto esercitato dal clima locale sulla produttività arborea».

La ricerca pubblicata su Nature, dopo aver preso in esame un dataset molto più ampio, aiuta a fare chiarezza sulla longevità degli alberi quanto sulle cause del loro decesso: «Gli alberi – argomenta per il National Geographic Gianluca Piovesan –, come tutti gli organismi viventi, tendono a massimizzare la fitness, ossia il patrimonio genetico trasmesso alle generazioni successive. Ogni specie lignificante, in base al programma scritto nel patrimonio genetico e in relazione a un determinato ambiente, investe i fotosintetati in modo diverso tra crescita (per vincere la competizione), riproduzione (per lasciare alle generazioni future il compito di perpetuare la specie) e processi metabolici per la sopravvivenza (accumulo di riserve, deposizione nel legno di composti antisettici, massa volumica). Ciò che rende però gli alberi di estremo interesse è l’assenza di un invecchiamento programmato nel cambio, quell’insieme di cellule meristematiche che rigenerano i tessuti di conduzione. In teoria, quindi, gli alberi sono immortali e si possono accrescere per anni e secoli praticamente all’infinito».

Allora perché un albero muore? «Il perché di questa relazione inversa tra crescita e longevità, valida sia a livello interspecifico sia a quello intraspecifico, non è del tutto chiaro – precisa il ricercatore – Sembra infatti che una determinata specie di albero, raggiunta una dimensione limite (massima per le condizioni ecologiche locali) divenga più suscettibile ai disturbi abiotici (vento, siccità, fulmini) e/o biotici (attacco di insetti) che ne determinano la morte».