Le coste e le isole Italiane uno degli hot spot da proteggere ampliando le Aree marine protette. La forte impronta di carbonio della pesca a strascico

Proteggere il mare è la chiave per salvare biodiversità, uomini e pianeta (VIDEO)

Un grande studio rivoluzionario: la mappa delle aree marine che potrebbero risolvere le crisi climatica, alimentare e della biodiversità

[19 Marzo 2021]

Lo studio “Protecting the global ocean for biodiversity, food and climate”, pubblicato su Nature da  un folto team internazionale di ricercatori  guidato da Enric Sala di Pristine Seas della National Geographic Society.  ha sviluppato «Un piano completo che salvaguarderebbe oltre l’80% degli habitat globali per le specie marine in via di estinzione, aumentando al contempo le catture di pesca di oltre 8 milioni di tonnellate e riducendo le emissioni di carbonio fino a 1 miliardo di tonnellate all’anno».

Lo studio, finanziato dalla National Geographic Society e dalla Leonardo DiCaprio Foundation. è considerato un’importante pietra miliare per il raggiungimento di una protezione completa degli oceani e del 30% dell’area marina globale entro il 2030, come si è recentemente impegnata a fare l’Unione europea e anche grandi Paesi come Canada, Usa, Francia, Italia e Gran Bretagna.

Uno degli autori dello studio, il canadese Boris Worm della Dalhousie University e che guida un progetto di ricerca sulla pianificazione delle Aree marine protette all’Ocean Frontier Institute, spiega che «L’oceano copre il 70% della Terra eppure, fino ad ora, la sua importanza per risolvere alcune delle sfide più urgenti del nostro tempo è stata trascurata. La protezione intelligente degli oceani può aiutare a fornire soluzioni climatiche naturali, rendere i pesci e frutti di mare più abbondanti e salvaguardare le specie marine in pericolo, tutto allo stesso tempo. I vantaggi sono evidenti. Se vogliamo risolvere le tre sfide più urgenti del nostro secolo – perdita di biodiversità, cambiamento climatico e carenza di cibo – dobbiamo proteggere il nostro oceano».

I 26 autori dello studio hanno anche quantificato per la prima volta il potenziale di rilascio di carbonio nell’oceano provocato dalla pesca a strascico, scoprendo che «La diffusa pratica di questa pesca rilascia nell’oceano centinaia di milioni di tonnellate di carbonio ogni anno. Si tratta di un volume di emissioni simile a quello dell’industria aeronautica globale». Globalmente, la pesca a strascico sta pompando ogni anno nei mari di tutto il mondo una gigatonnellata di  emissioni di carbonio. Questa tecnica di pesca, che comporta il trascinamento di pesanti reti sul fondo dell’oceano,  sta distruggendo gli stock di carbonio vecchi di millenni, trasformando il fondo marino in una fonte di emissioni.

Un’altra autrice dello studio, Trisha Atwood della Utah State University, spiega a sua volta che «Il fondale oceanico è il più grande deposito di carbonio del mondo. Se vogliamo riuscire a fermare il riscaldamento globale, dobbiamo lavorare per lasciare indisturbati i fondali marini ricchi di carbonio. Le nostre scoperte sugli impatti climatici della pesca a strascico renderanno le attività sui fondali marini difficili da ignorare nei piani climatici futuri».

Lo studio ha rilevato che l’eliminazione del 90% dell’attuale rischio di rilascio di gas serra dovuto alla pesca a strascico richiederebbe la protezione solo di circa il 4% dell’oceano, principalmente all’interno delle acque nazionali.

Il rivoluzionario lavoro scientifico conferma che «La vita oceanica è in declino in tutto il mondo a causa della pesca eccessiva, della distruzione degli habitat e dei cambiamenti climatici». Ma Sala, esploratore residente della National Geographic Society, evidenzia che «Tuttavia, solo il 7% dell’oceano è attualmente sotto qualche tipo di protezione. In questo studio, abbiamo sperimentato un nuovo modo per identificare i luoghi che, se fortemente protetti, aumenteranno la produzione di cibo e salvaguarderanno la vita marina, il tutto riducendo le emissioni di carbonio».

Tra questi luoghi ci sono le coste e le isole italiane e lo studio dimostra «Il 30% è la quantità minima di oceano che il mondo deve proteggere per fornire molteplici benefici all’umanità».

Per identificare le aree prioritarie, il team di famosi biologi marini, esperti di clima ed economisti ha analizzato le acque oceaniche non protette del mondo in base al grado di minaccia da parte delle attività umane che possono essere ridotte con l’istituzione di Aree marine protette (Amp). Quindi, i ricercatori hanno sviluppato un algoritmo per identificare le aree in cui «Una maggiore protezione offrirebbe i maggiori benefici attraverso i tre obiettivi complementari di protezione della biodiversità, produzione di pesci e frutti di mare e mitigazione del clima». Poi hanno mappato questi luoghi per creare «Un “progetto” pratico che i governi possono utilizzare per attuare i loro impegni a proteggere la natura e allo stesso tempo ottenere vantaggi economici significativi».

Gli autori dello studio hanno così scoperto che «I siti prioritari sono distribuiti in tutto l’oceano», con la stragrande maggioranza di loro all’interno delle Zone economiche esclusive (Zee) di 200 miglia delle nazioni costiere. Altri target i protezione si trovano in alto mare, quelle acque disciplinate dal diritto internazionale e gli hot spot più a rischio sono la dorsale medio-atlantica (una massiccia catena montuosa sottomarina), il Plateau delle Mascarene nell’Oceano Indiano, la dorsale di Nazca al largo della costa occidentale del Sud America e la dorsale indiana sud-occidentale, tra l’Africa e l’Antartide.  E una notevole priorità per la conservazione è proprio l’Antartide, che attualmente ha poca protezione ma che, a causa dei cambiamenti climatici, si prevede che in futuro ospiterà molte specie vulnerabili.

Lo studio rileva che Aree marine protette no touch posizionate in modo intelligente aumenterebbero davvero la produzione di pesce in un momento in cui le forniture di pesce catturato in natura stanno diminuendo e la domanda è in aumento. In tal modo, gli autori dello studio confutano una convinzione dura a morire secondo la quale la protezione degli oceani danneggia la pesca. Un’altra autrice dello studio, Jennifer McGowan, del Center for Biodiversity and Global Change della Yale University e di Nature Conservancy,  conferma: «Questa ricerca fornisce la base su cui i responsabili delle decisioni possono mappare e pianificare le interazioni con l’oceano per fornire molteplici vantaggi per le persone e la biodiversità. La nostra ricerca fornisce la prova che è giunto il momento di smetterla con la narrativa secondo cui la conservazione è in contrasto con la prosperità economica».

Sala  ha sottolineato che «Le soluzioni con molteplici vantaggi attraggono sia i cittadini che i manager. Il nostro approccio pionieristico consente loro di identificare le aree da proteggere per affrontare le principali sfide che l’umanità deve affrontare: la sicurezza alimentare, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità». Infatti, piuttosto che una singola mappa per la conservazione dell’oceano, i ricercatori hanno creato un quadro per i Paesi per decidere quali aree proteggere in base alle loro priorità nazionali.

La McGowan ha detto a BBC News che «Molti dei luoghi prioritari identificati nella ricerca rientrano nella giurisdizione di Paesi che possono attuare politiche oceaniche proattive e sostenibili. Spesso pensiamo alla protezione come al semplice salvataggio delle balene, ma gli oceani ci forniscono molto di più: stanno fornendo cibo per il pianeta, fornendo rifugi per le specie colpite dai cambiamenti climatici, sono un enorme serbatoio di carbonio che conta davvero per il nostro clima. Ciò che questa ricerca suggerisce è che con uno dei nostri meccanismi più forti, la protezione degli oceani, possiamo contribuire a fornire buoni risultati per tutte queste cose».

Arnaud Auber, un ecologo marino dell’Institut Français de Recherche pour l’Exploitation de la Mer (Ifremer) che nello studio ha guidato il team che ha esaminato le singole specie di uccelli marini, mammiferi marini e pesci per determinare il loro contributo unico al loro ambiente, e su Radio France Internationale  – RFI ha fatto  notare che «Un cambiamento molto piccolo nella distribuzione delle aree marine protette può avere un enorme impatto positivo sulla biodiversità. Le specie molto rare sono anche molto importanti per il funzionamento dell’ecosistema».

Lo studio fa seguito ai recenti annunci di Unione Europea, Usa, Canada, Gran Bretagna, Cina di voler investire in una Blue Economy ostenibile, aumentando allo stesso tempo le misure di protezione degli oceani e sarà uno degli studi di riferimento per la 15esima Conferenza delle parti della Convention on biological diversity Onu (COP15 Cbd) che si terrà a maggio a Kunming, in Cina, dove i delegati di 190 Paesi – Italia compresa – finalizzeranno un accordo per porre fine alla crisi mondiale della biodiversità, con l’obiettivo di proteggere il 30% della terra e dell’oceano del pianeta entro il 2030.

Sul sito del World Economic Forum, Sala ricorda «Il 2021 dovrebbe essere il “super anno” per la natura, in cui concordiamo collettivamente su come affrontare il rischio maggiore per l’umanità: siamo diventati totalmente sbilanciati con la natura. Ma esiste una soluzione scientificamente provata ed economica, e la nuova ricerca ha trovato una via da seguire. Abbiamo già perso il 60% della fauna terrestre e il 90% dei grandi pesci oceanici. Circa il 96% di tutti i mammiferi sulla terra sono esseri umani e il nostro bestiame addomesticato. Solo il 4% è tutto il resto, dagli orsi agli elefanti alle tigri. Ora rischiamo l’estinzione di 1 milione di specie durante questo secolo. La perdita di queste specie e di tutti i beni e servizi che ci danno significherebbe il collasso del nostro sistema di supporto vitale e di tutto ciò a cui teniamo e di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: il nostro cibo, la nostra salute, la nostra economia, la nostra sicurezza. La buona notizia è che possiamo ancora evitare questa catastrofe».

Sala sottolinea che alla COP15 Cbd di Kunming, i governi di tutto il mondo dovranno «concordare quanto spazio noi umani siamo disposti a rinunciare a favore di tutto il resto delle specie con cui condividiamo questo pianeta. L’oceano deve diventare un protagonista più centrale in questo cambiamento. E’ una vittima del cambiamento climatico – dovuto al riscaldamento e all’acidificazione degli oceani – ma può anche essere una parte importante della soluzione».

E Sala affronta lo scottante tema di quanto mare dobbiamo proteggere: «Alcuni sostengono che non possiamo proteggere più oceano perché presto avremo bisogno di nutrire 10 miliardi di persone:  raccomandano che dobbiamo sviluppare una nuova “blue economy”. Ma questo è un mito. Non possiamo portare più pesce fuori dall’oceano pescando di più. E non possiamo avere una blue economy da un oceano morto. Già più di tre quarti degli stock ittici vengono pescati oltre i limiti sostenibili e la Banca mondiale suggerisce che possiamo catturare più pesce solo se riduciamo quasi della metà lo sforzo di xspesa del mondo per la pesca. Questo percepito compromesso tra estrazione e protezione è ciò che mi ha spinto a mettere insieme un team di colleghi un paio di anni fa, per calcolare quanta parte dell’oceano dobbiamo proteggere e quali aree dovrebbero essere protette per massimizzare i benefici per le persone e il pianeta. La scienza è chiara: maggiore è la biodiversità, maggiori sono i vantaggi che il mondo naturale ci offre. Quindi, dobbiamo proteggere ciò che è rimasto selvatico e ripristinare ciò che abbiamo degradato».

Sala ricorda che «Sulla terra, il ripristino può essere accelerato reimpiantando la vegetazione autoctona o reintroducendo animali di grandi dimensioni, ma nell’oceano il modo più veloce per ristabilire l’equilibrio è lasciare che l’oceano lo faccia da solo. Quando chiudiamo delle aree alla pesca e ad altre attività dannose, la biomassa del pesce aumenta in media di 6 volte entro un decennio. Pertanto, il nostro team ha sviluppato un nuovo strumento di mappatura per identificare le aree che, se completamente protette dalle attività dannose, ci darebbero i maggiori guadagni».

Queste sono, secondo Sala, sono  le principali scoperte fatte dal nuovo studio:

1) Più protezione = più cibo. Se proteggiamo le giuste aree nell’oceano, aiuterebbero a ricostituire le aree circostanti in modo che il pescato globale aumenti fino a oltre 8 milioni di tonnellate metriche (o il 10% del pescato globale nel 2018). Quindi è un mito che non possiamo proteggere di più perché abbiamo bisogno di catturare più pesci. Infatti, è la conservazione che si tradurrà in più pesce.

2) Più protezione = meno emissioni di carbonio oceaniche. La nostra ricerca ha scoperto che il fondo marino, che pensavamo fosse il più grande deposito di carbonio del nostro pianeta, è stato trasformato in una fonte di emissioni di carbonio. I pescherecci a strascico arano ogni anno circa 5 milioni di km2 del fondo marino (un’area più grande del doppio della Groenlandia) con reti enormi e pesanti, che disturbano i sedimenti e il carbonio in esso contenuti. Parte di quel carbonio, quando viene disturbato e risospeso nell’acqua, si trasforma in anidride carbonica, un gas serra che può rimanere nell’aria per 1.000 anni. La scoperta più scioccante è stata che le emissioni di CO2 della pesca a strascico sono simili a quelle dell’aviazione globale. Qui, c’è un’enorme opportunità per proteggere il fondo marino e preziosi ecosistemi dalla pesca a strascico e allo stesso tempo ridurre le massicce emissioni di carbonio. Il carbonio che non verrebbe emesso anno dopo anno potrebbe essere venduto dai Paesi come crediti di carbonio e quel capitale potrebbe quindi essere utilizzato per finanziare la protezione degli oceani.

3) Dobbiamo proteggere almeno il 30% dell’oceano. La nostra ricerca ha scoperto che, indipendentemente da come valutiamo la vita marina rispetto al cibo rispetto al clima, dobbiamo proteggere almeno il 30% dell’oceano globale. Potremmo proteggere meno di così solo se l’umanità decidesse che la biodiversità marina era qualcosa che non volevamo, cosa che sappiamo essere suicida. L’identificazione delle aree da proteggere dipende dal modo in cui i Paesi valutano la biodiversità, la pesca e la mitigazione dei cambiamenti climatici. Il nostro nuovo strumento di mappatura consente alle parti interessate di dare valori diversi ai diversi obiettivi e calcolare molteplici vantaggi. Ogni opzione produce una mappa diversa. Ma non importa quanto si valutino queste tre aree, la stragrande maggioranza delle priorità per la conservazione degli oceani si trova all’interno delle zone economiche esclusive di 200 miglia dei Paesi.

4) La collaborazione globale è più efficiente. E’ importante sottolineare che la nostra nuova ricerca dimostra che se i Paesi proteggessero le aree sulla base di priorità globali, ci vorrebbe meno della metà della superficie oceanica per ottenere i benefici desiderati che se ogni Paese si preoccupasse solo delle proprie priorità nazionali. Andare da soli richiederebbe uno sforzo maggiore e sarebbe più costoso.

Sala conclude: «I nostri risultati supportano l’obiettivo globale di proteggere almeno il 30% dell’oceano entro il 2030, proposto da oltre 50 nazioni  e dalla Commissione Europea (i 57 Paesi che hanno aderito all’High Ambition Coalition (HAC) for Nature and People, Italia compresa, ndr) come uno degli obiettivi principali dell’Accordo sulla natura di Kunming entro la fine dell’anno. Se diamo all’oceano lo spazio di cui ha bisogno, ci nutrirà, aumenterà la sicurezza alimentare e ci aiuterà a evitare la catastrofe climatica. Questa è l’economia blu di cui abbiamo bisogno, l’economia di un oceano vivente».

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