Scoperte due nuove specie di topi acquatici, sono i cugini di uno dei mammiferi più rari al mondo

I topi dalle lunghe zampe che cacciano gli insetti acquatici nei ruscelli usando i baffi

[16 Ottobre 2020]

Novantatre anni fa, uno scienziato catturò un topo in un ruscello in Etiopia, scoprendo che tra tutti i topi, ratti e gerbilli africani era quello più adatto a vivere in acqua grazie alla sua pelliccia idrorepellente e ai piedi lunghi e larghi. Quell’esemplare, ora al Field Museum di Chicago, è l’unico del suo genere mai catturato e gli scienziati pensano che possa appartenere a una specie ormai estinta. Ma il nuovo studio “Integrative taxonomy and phylogeography of Colomys and Nilopegamys (Rodentia: Murinae), semi-aquatic mice of Africa, with descriptions of two new species”, pubblicato sullo Zoological Journal of the Linnean Society ha scoperto i cugini più stretti di quel topo semi-acquatico, comprese due specie nuove per la scienza.

Uno degli autori dello studio, Julian Kerbis Peterhans, un ricercatore del Field Museum che studia questi roditori da più di 30 anni, spiega che «Questi due gruppi di topi sono stati confusi l’uno con l’altro per un secolo. Sono stati così elusivi per così tanto tempo, sono alcuni degli animali più rari al mondo, quindi è emozionante scoprire finalmente il loro albero genealogico».

Il principale autore dello studio, il biologo Tom Giarla del Siena College di New York, sottolinea che «Sottovalutiamo quanto poco si sappia sulla biodiversità dei piccoli mammiferi, soprattutto nelle aree tropicali del mondo. Non stiamo scoprendo molti nuovi leoni, tigri e orsi, ma c’è un incredibile potenziale per la scoperta di nuove specie di piccoli mammiferi, perché sono difficili da trovare. E sono specie di animali sottovalutati: sono davvero fantastici quando inizi a conoscere la loro ecologia. Questi sono topi semi-acquatici, quindi non sono solo dei normali roditori di tutti i giorni».

I ricercatori so sono concentrati su due tipi principali di topi africani: Nilopegamys e Colomys. Nilopegamys  – topo dalla sorgente del Nilo – è il genere conosciuto solo dall’esemplare raccolto nel 1927; il genere Colomys è un po’ più diffuso, ma ancora difficile da trovare. Mentre il Nilopegamys è stato trovato solo in Etiopia, i Colomys – ratti dei guadi africani – sono stati trovati in tutto il bacino del Congo e nella parte occidentale del continente africano.

Il nome di Colomys si traduce approssimativamente in “topo cavaliere d’Italia” per le sue lunghe zampe che gli permettono di guadare in corsi d’acqua poco profondi per cacciare gli insetti che ci vivono e  le larve di tricotteri.  Peterhans  spiega ancora: «Questi topi hanno zampe lunghe, un po’ come un canguro. Si siedono sulle anche e guadano ruscelli poco profondi, rilevando i movimenti con i baffi sulla superficie dell’acqua, come un sonar. Hanno cervelli insolitamente grandi per elaborare queste informazioni sensoriali provenienti dai loro baffi quando cacciano. Sono anche carini. Quando ho catturato il mio primo, circa 30 anni fa, era il più bel topo africano che avessi mai visto, aveva una pelliccia idrorepellente molto spessa, rigogliosa, calda e accogliente. Sono incredibilmente morbidi e hanno questa straordinaria pancia bianca come la neve».

Ma i topi dei guadi, dato che trascorrono il loro tempo sull’acqua, sono difficili da catturare. Preferiscono torrenti poco profondi in modo da poter utilizzare i baffi per cacciare, ma sono stati trovati anche in zone paludose e persino sulle rive di fiumi profondi più di un metro. Terry Demos, un altro autore dello studio e ricercatore al Field Mueum, racconta che «Per attraversare uno dei fiumi in cui ho catturato un Colomys, ho dovuto usare dei bastoni da passeggio, l’acqua mi arrivava fino alla vita. E ai tropici possono esserci piogge torrenziali ai tropici, quindi a volte metà delle trappole viene spazzata via e devi andare a valle per cercare di trovarle».

Lo studio è anche la prima valutazione dei Colomys in tutto il loro vasto areale e attinge a nuovi lavori sul campo e collezioni museali. I ricercatori hanno confrontato i tratti fisici degli animali e analizzato il loro DNA, scoprendo così che all’interno del genere Colomys c’erano due nuove specie che non erano ancora state descritte e che sono state chiamate Colomys lumumbai, in onore del leader dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba,  Colomys wologizi, in riferimento ai Monti Wologizi, in Liberia, dove vive. I ricercatori hanno anche scoperto che una sottospecie era in realtà una specie separata e hanno rivisto l’areale  di un’altra specie.

Giarla è stata anche in grado di estrarre il DNA da un pezzo di tessuto essiccato sul cranio dell’esemplare di Nilopegamys catturato 93 anni fa e custodito nelle collezioni del Field e sottolinea che «Quando lavori con questi “DNA antichi”, devi trattarli in modo diverso. Non può esserci alcun DNA contaminante presente, perché ciò potrebbe rovinare l’intero studio. Sono rimasto sbalordito di esserci riuscito al primo tentativo». E il DNA ha dimostrato che «Il Nilopegamys è un genere gemello dei Colomys: il loro parente più stretto».

Imparare a conoscere le diverse specie di topi che vivono nei torrenti africani  ha ampie ricadute  per la scienza della conservazione: «Le nuove specie che abbiamo denominato fanno parte di uno sforzo globale per comprendere la biodiversità delle foreste pluviali africane e evidenziare le aree critiche da preservare – evidenzia Demos – Ci sono vaste aree del bacino del Congo che sono state appena esplorate negli ultimi settant’anni, luoghi di difficile accesso a causa dell’instabilità politica. Non siamo nemmeno completamente sicuri di come siano distribuiti questi animali, ci sono grandi lacune».

I risultati potrebbero persino servire per tutelare la salute pubblica: «Il Covid è una malattia zoonotica e la ricerca sulla biodiversità è essenziale per comprendere le malattie zoonotiche –  fa notare Giarla – Dobbiamo capire quali specie sono presenti nelle aree naturali, in particolare le aree naturali modificate dall’uomo».  I ricercatori ricordano che i topi oggetto dello studio «non sono noti per essere portatori di malattie che colpiscono gli esseri umani: studiarli insieme ad altri animali può aiutare gli scienziati a ottenere una migliore base di riferimento su quali specie vivono e dove, e questo può aiutare a individuare le malattie zoonotiche in futuro».

I ricercatori evidenziano che la loro ricerca è stata resa possibile da una vasta rete internazionale di scienziati: «Se si guarda l’elenco degli autori, abbiamo persone da tutto il mondo – conclude Giarla –  Abbiamo colleghi in Africa, in Europa e negli Stati Uniti. Musei nella Repubblica Ceca, Germania, Stati Uniti, Sud Africa, Eswatini. Avevamo persone in tutto il mondo che ci aiutavano in questo sforzo: operatori sul campo, genetisti, morfologi. La scienza è un lavoro davvero globale».