Il Worldwatch Institute e l’università di Cambridge arrivano alle stesse conclusioni

Il picco della carne e la dieta per salvare il pianeta

Tagliare gli sprechi alimentari e moderare il consumo di animali sono le opzioni “senza rimpianti”

[1 Settembre 2014]

Due ricerche scientifiche, accomunate dall’alto livello delle istituzioni cui fanno riferimento, arrivano  alla pubblicazione praticamente in contemporanea per dimostrare l’urgenza di cambiare la nostra dieta, o meglio i modelli di consumo alimentari che la sostengono. La prima ricerca, “Peak Meat Production Strains Land and Water Resources” del Worldwatch Institute conferma il costo insostenibile della produzione industriale globale di carne, che comporta l’abbattimento di foreste per espandere pascoli ed utilizza grandi quantità di acqua e cereali e si basa su  dosi massicce di antibiotici per il bestiame.

Secondo La Fao, nel 2013 la produzione globale di carne è arrivata ad un nuovo picco di 308,5 milioni di tonnellate, grazie al crescente potere d’acquisto, all’urbanizzazione ed al cambiamento delle diete, la produzione di carne si è moltiplicata per 4 solo negli ultimi 50 anni ed è cresciuta di 25 volte rispetto al 1800.

Una crescita dei consumi che non è stata fermata nemmeno l’aumento dei prezzi degli ultimi 10 anni: il rapporto spiega che «in tutto il mondo, il consumo di carne si è attestato a 42,9 kg pro capite nel 2013, anche se il divario comincia a chiudersi, la gente nei Paesi industrializzati continua a  mangiare quantità di carne molto più grandi (75,9 kg) rispetto a quella dei Paesi in via di sviluppo (33,7 kg)» .

Circa il 70% dei terreni agricoli del pianeta è utilizzata a pascolo di bestiame ed un altro 10% viene utilizzato per coltivare cereali per produrre carne e latticini. La produzione di carne bovina è di produrre carne di maiale o di pollo, che richiede da 3 a 5 volte più terra per produrre la stessa quantità di proteine, è a ​​molto più alta intensità di risorse. Da sola la produzione di carni bovine utilizza circa tre quinti dei terreni agricoli del mondo, ma produce meno del 5% delle proteine globali.

Produrre carne richiede molta acqua: l’agricoltura utilizza circa il 70% dell’acqua dolce disponibile a livello mondiale ed un terzo finisce nei campi di cereali per gli animali. La carne bovina è di gran lunga quella a più alta intensità idrica: più di 15.000 litri per Kg, molto più di quanto richiesto per un kg di riso(3.400 l/Kg), uova (3.300 litri), latte (1.000 litri) o patate (255 litri). Più del 40% della produzione mondiale di frumento, segale, avena e mais, insieme a 250 milioni di tonnellate di soia e di altri semi oleosi, finisce in cibo per gli animali. Al Worldwatch fanno notare che «alimentare con cereali il bestiame migliora la loro fertilità e la crescita, ma si stabilisce una concorrenza de facto tra il cibo tra il bestiame e quello per le persone».

A questo si aggiungano le dosi massicce di antibiotici utilizzate per accelerare la crescita degli animali e ridurre la probabilità di focolai di malattie negli allevamenti intensivi. Solo negli Usa nel 2001 sono state  vendute 13.600 tonnellate di antibiotici destinati al  bestiame, quasi 4 violte di più delle 3.500 tonnellate usate per curare le persone malate. Una cifra che impallidisce di fronte alle più di 100.000 tonnellate si antibiotici somministrate al bestiame da carne in Cina.

Il rapporto fa il punto su alcune regioni e Paesi:  i 131,5 milioni di tonnellate di carne dell’Asia rappresentato  quasi il 43% della produzione mondiale nel 2013.   L’Europa è seconda con (58,5 milioni di tonnellate, seguita da Nord America con 47,2 milioni di tonnellate e dal Sud America a 39,9 milioni di tonnellate. Da sola la Cina rappresenta quasi la metà della produzione globale di carne suina- Nel 20213 i due più grissi esportatiri di carne sono stati Usa (7,6 milioni di tonnellate) e Brasile (6,4 milioni di tonnellate), cioè il 45% per cento del commercio globale. Da sole l’Australia e la Nuova Zelanda esportan l’84% della carne di agnello e montone del mondo. Le 10 più grandi aziende di vendita di carne del 2013 hanno sede in solo 6 Paesi: Brasile (JBS, BRF, Marfrig), Usa (Tyson Food, Cargill, Hormel Foods), Olanda (Vion), Giappone (Nippon Meat Packers), Danimarca (Danish Crown AmbA), Cina (Smithfield Foods acquisita dalla Shuanghui International Holdings nel 2013).

Ci sono pratiche alternative per ridurre gli impatti della carne su ambiente e salute come passare dall’alimentazione a base di cereali a quella ad erba ad altre piante, utilizzo di concimi naturali al posto di quelli chimici, fine degli allevamenti industriali…  Ma il Worldwatch Institute dice che anche le scelte alimentari fanno una grande differenza ed è proprio quello (insieme agli sprechi) di cui si occupa l’altro studio (Importance of food-demand management for climate mitigation), pubblicato oggi su Nature Climate Change da un team di ricercatori britannici delle università di Cambridge e Aberdeen, e secondo il quale «Nel 2050, se le tendenze attuali continuano, la produzione di cibo da sola raggiungerà, se non supererà, gli obiettivi globali di gas serra totali». Secondo gli autori, «Tutti dovremmo riflettere attentamente riguardo al cibo che scegliamo e al suo impatto ambientale. Il passaggio a un’alimentazione più sana in tutto il mondo è solo una della serie di iniziative devono essere prese per evitare cambiamenti climatici pericolosi e assicurarsi che ci sia abbastanza cibo per tutti».

La dieta all’occidentale appesantite dalla carne, che pesa sulle rese agricole non risponde alle esigenze alimentari di una popolazione mondiale che raggiungerà i 9,6 miliardi di persone, rendendo necessario coltivare più terra in coltivazione. «Ciò avverrà ad un prezzo elevato – avvertono gli autori – Dato che la deforestazione aumenterà le emissioni di carbonio così come la perdita di biodiversità e l’aumento della produzione di bestiame farà aumentare i livelli di metano».  Per modificare l’attuale catastrofico trend bisogna ridurre sprechi e rifiuti e  incoraggiare diete equilibrate.

«Se manteniamo il business as usual – dicono i ricercatori di Cambridge – entro il 2050 dovremo ampliare le terre coltivate del 42% e aumentare del 45% l’utilizzo di fertilizzanti rispetto al 2009. Un altro decimo delle foreste tropicali vergini del mondo sparirebbe nel corso dei prossimi 35 anni».

Un circolo vizioso infernale: più deforestazione, fertilizzanti ed emissioni di metano dal bestiame emissioni potrebbero far aumentare fino all’0% le emissioni di gas serra da produzione alimentare, così entro il  2050  i gas serra per la produzione di cibo sarebbero la metà di quelli emessi dall’intera economia mondiale.

Secondo lo studio, «dimezzare la quantità di rifiuti alimentari e la gestione della domanda di prodotti alimentari particolarmente dannosi per l’ambiente, cambiando le diete globali, dovrebbero essere obiettivi chiave che, se realizzati, potrebbe mitigare alcuni dei gas serra che causano il cambiamento climatico».

Bojana Bajzelj, del dipartimento di ingegneria di Cambridge, spiega che «ci sono leggi fondamentali della  biofisica che non possiamo eludere. L’efficienza media della conversione mangime vegetale in carne del bestiame è inferiore al 3% e, dato che si mangia più carne, più terre arabili sono destinate alla produzione di materie prime per animali che forniscono la carne per gli esseri umani. Le perdite in ogni fase sono grandi, e dato che gli esseri umani mangiano globalmente sempre più carne, la conversione dalle piante in cibo diventa sempre meno efficiente, provocando l’espansione agricola e la conversione della copertura del suolo e rilasciando più gas serra. Le  pratiche agricole non sono necessariamente colpevoli, ma lo è la nostra scelta del cibo. E’ assolutamente necessario trovare il modo di raggiungere la sicurezza alimentare globale, senza espandere le coltivazioni o i pascoli. La produzione alimentare è uno di principali driver della perdita di biodiversità e rappresenta un grande contributo al cambiamento climatico ed all’inquinamento, quindi le nostre scelte alimentari contano».

Il team ha studiato come chiudere questo gap di rendimento tra i raccolti ottenuti con le migliori pratiche agricole e le rese medie reali in tutto il mondo ed ha confermato che è più ampio nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Secondo loro «La chiusura di questi gap dovrebbe essere proseguita  attivamente attraverso l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura», ma anche così la domanda alimentare in crescita richiederà nuovi terreni, quindi resta l’impatto sulle emissioni di gas serra e sulla biodiversità.  Bajzelj sottolinea che «Rese più elevate richiederanno anche più uso di fertilizzanti minerali e l’aumento della domanda di acqua per l’irrigazione».

I rifiuti alimentari, presenti in tutte le fasi della catena alimentare, sono un altro scenario analizzato dal team. Nei Paesi in via di sviluppo più poveri la principale causa di spreco di cibo sono lo stoccaggio e il trasporto di prodotti, in Occidente è lo spreco alimentare, «Quest’ultimo è per molti versi peggiore, perché i prodotti alimentari sprecati hanno già subito varie trasformazioni che richiedono input di altre risorse, in particolare di energia» sottolinea Bajzelj.

Con questi due problemi i gas serra entro il 2050 aumenterebbero del 40%, ma gestendo meglio il cibo e dimezzando lo spreco alimentare si arriverebbe solo ad un 2% di gas serra in più, se a questo si aggiungessero diete più sane e meno pesanti in termini di consumi di materie rime ed energia le emissioni da cibo potrebbero calare addirittura del 4% rispetto ai livelli del  2009.

Il team britannico conferma quanto detto dai loro colleghi americani: «Le diete occidentali sono sempre più caratterizzati da un consumo eccessivo di cibo, tra cui quello di carne e latticini ad alta intensità di emissioni Abbiamo testato uno scenario in cui tutti i Paesi assumono una dieta media equilibrata, senza consumo eccessivo di prodotti con zuccheri, grassi e carne. Ciò riduce significativamente ancora di più le pressioni sull’ambiente». L a dieta “media” equilibrata utilizzato nello studio è un obiettivo in gran parte realizzabile, visto che prevede il consumo di  due porzioni da 85 g di carne rossa e 5 uova alla settimana, così come una porzione di pollame al giorno. Come evidenzia uno degli autori, Keith Richards, «Questo non è un’argomentazione radicalmente vegetariana, si tratta di mangiare carne in quantità ragionevoli, come parte di una dieta sana ed equilibrata. Gestire in modo migliore la domanda, per esempio concentrandosi sull’educazione alla salute, porterebbe un doppio vantaggio: il mantenimento di popolazioni sane e la riduzione notevole di pressioni critiche per l’ambiente».

Bajzelj conclude: «Oltre a favorire l’agricoltura sostenibile, dobbiamo ripensare ciò che mangiamo. Tagliare gli sprechi alimentari e moderare il consumo di carne in diete più equilibrate, sono le essenziali opzioni “senza rimpianti”».