«Se continuiamo a pensare l’impresa come a una macchina da guerra, ci ritroveremo in guerra»

Il valore dei valori: intervista a Giuseppe Argiolas, che presenterà oggi a Pisa il suo ultimo libro

[19 Giugno 2015]

Giuseppe Argiolas è professore aggregato di Responsabilità sociale delle organizzazioni, ricercatore di Economia e gestione delle imprese al dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’università di Cagliari. Ha scritto recentemente “Il valore dei valori”, edito da Città Nuova, e lo presenta a Pisa oggi alle 16:30 all’ex convento dei Cappuccini, in un’iniziativa promossa da Acli, Arcidiocesi di Pisa-Caritas, Economia di Comunione, First Cisl Toscana, Fondazione Opera Giuseppe Toniolo, Legambiente. In dialogo con Giuseppe Argiolas ci saranno Benedetto Gui, docente di Economia Istituto Universitario Sophia, Loppiano, Alberto Vannucci, Scienze Politiche Università di Pisa, Daniele Salvadori, Direttore Banca Popolare Lajatico e Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana.

Nel suo libro, Argiolas propone una teoria dall’ampio respiro e dalle grande ambizioni, che introduce la centralità delle persone e delle relazioni nei sistemi di governance delle imprese, in particolare quelle socialmente orientate. Non solo perché le imprese diventino più efficienti, ma perché solo questo, sostiene lo studioso, può portare a una piena realizzazione delle persone, e quindi delle comunità. Un libro che parla all’economia da una prospettiva fortemente etica, e che offre strumenti e tecniche per il management oltre agli argomenti teorici e una lettura storica. Abbiamo incontrato Argiolas per l’occasione.

L’apertura del suo libro descrive subito l’impresa come un soggetto dinamico, che può evolvere. E se l’impresa è espressione di una certa cultura organizzativa, lei evidenzia come quest’ultima sia a sua volta influenzata dall’ambiente culturale in cui opera. Le due cose insieme definiscono il modo di essere e fare impresa. C’è già una dimensione morale a questo livello?

«Siamo abituati a pensare all’impresa come a una macchina da guerra, che opera per sconfiggere la concorrenza e fare più profitti, trascurando la dimensione personale. L’impresa è invece un sistema di relazioni, dove le persone si mettono assieme per raggiungere degli obbiettivi che da soli non potrebbero raggiungere. Si tratta di un’organizzazione di persone, all’interno della quale la dimensione della cultura dell’ambiente che la circonda ha un ruolo centrale, perché il punto non è solo cosa si fa ma come si fa, e questo dipende dal sistema di valori delle persone e del contesto in cui sono inserite. Ecco quindi una prima componente etica».

Sistemi di valori si traducono in sistemi di governance. Lei afferma che a ogni sistema, inoltre, corrisponde una precisa visione antropologica: si va dall’uomo avido e indolente descritto da Frederick Taylor, all’uomo economico di Ronald Coase e Oliver Williamson, all’uomo soddisfatto di Elton Mayo e, infine, all’uomo cooperativo di Chester Barnard e Hebert Simon. Perché quest’ultima visione antropologica secondo lei è quella che più corrisponde alla complessità delle cose, e perché è auspicabile assumerla come punto di partenza?

«Già negli anni ’60 gli autori più avveduti nell’ambito delle discipline del management, come Douglas McGregor, si resero conto che i comportamenti all’interno dell’impresa sono determinati dall’apparato tecnico, dalla struttura organizzativa che si adotta. Che a sua volta è figlia della prospettiva antropologica che si ha. Se io sostengo che le persone con le quali andrò a collaborare penseranno esclusivamente al proprio interesse, organizzerò un sistema di controlli per evitare che agiscano solo per il proprio tornaconto, e indurli ad agire principalmente per il mio. Il risultato è che in questo modo le persone vengono orientate nei comportamenti dal sistema di controllo e questo finisce per snaturare le loro scelte e le loro azioni. La questione antropologica – l’avere o no fiducia negli altri, pensare che i soggetti si realizzino nella relazione oppure nell’accaparramento avido delle risorse – determina strutture organizzative precise. Sono convinto che vada recuperata la visione cooperativa dell’uomo: la complessità ci spinge, anzi, ci obbliga, a una riscoperta dei valori iniziali di cooperazione e solidarietà, senza i quali non è possibile parlare di governo dei fenomeni».

Ma l’uomo cooperante è un dato o una prospettiva? Parliamo della natura umana o delle sue aspirazioni?

«Le neuroscienze ci stanno confermando un elemento importante: fino a non molti anni fa si pensava che la persona avesse una struttura individuale e individualistica, e che solo nelle relazioni con l’ambiente si verificava la dimensione più alta della struttura umana, quella della società. Le neuroscienze oggi ci dicono che anche la struttura biologica è di per sé relazionale, e che per natura siamo esseri in relazione. Abbiamo quindi due dimensioni: una ontologica, che attiene la nostra natura relazionale, e una dinamica. La cooperazione si impara. Ecco come diventa necessario e possibile riscoprire questa natura, potenziarla, valorizzarla e svilupparla nel quotidiano».

Entriamo nel vivo del suo testo. Nel proporre un sistema di governance per le imprese socialmente orientate, dove al centro tornano appunto le persone piuttosto che il profitto o la contrattazione, introduce un concetto potente come quello della “comunione”. E descrive la governance come un processo che si realizza attraverso due momenti: la sigla di un patto e l’attuazione di strumenti coerenti.

«Se partiamo dall’assunto che la persona si realizza nelle relazioni, dobbiamo poi chiederci: in quale relazione? Non certo in quelle di scontro, di prevaricazione o di sottomissione. Chester Barnard, un autore importante delle teorie manageriali, negli anni ’30 sosteneva che la relazione privilegiata era quella di comunione con gli altri. Uno degli aspetti centrali della vita delle imprese, aggiungeva, è proprio la realizzazione delle condizioni di comunione, che lui definì: “Quel sentirsi a proprio agio nei rapporti sociali che è talvolta chiamato solidarietà, integrazione sociale, socievolezza o sicurezza sociale”. Da lì sono state sviluppate teorie nuove, trascurando però questo aspetto dell’economia di comunione. Il mio lavoro di ricerca è stato quello di andare a ripescare questi concetti cercando di dare senso a questa intuizione per sviluppare poi un sistema di governance. Un sistema che implica strumenti manageriali coerenti; la comunione infatti non è una realtà che si realizza una volta per tutte, ma è un processo dinamico che va seguito. Da qui la necessità di dotarsi di pilastri: dialogo, fiducia e reciprocità, e poi di strumenti per realizzare nel quotidiano questo stesso processo».

Che messaggio dà il suo libro alla politica?

«Gli studenti me lo chiedono spesso. Io rispondo chiedendogli: “Secondo voi io faccio politica?” E loro prontamente: “No professore, la politica è una cosa brutta”. Io credo invece che il mio lavoro sia anche politico, se intendiamo politica come servizio alla polis. Chiara Lubich la definiva “l’amore degli amori”, la forma più alta di servizio alla comunità. Qual è il messaggio? Che la politica è servizio, è bene comune.  E che significa bene comune? Che se il bene non è comune, non è bene. E quando si dice che il bene è comune non significa che è totale, non è una sommatoria del bene di tutte le persone, dove se uno ha zero e uno 10, la somma sarà comunque 10. No, è una produttoria: se uno ha dieci e uno ha zero, fa zero per tutti. La politica deve recuperare queste misure e ristabilire un patto forte con i cittadini».

Mentre leggevo l’ultimo capitolo del suo libro, una telefonata annunciava che alla Smith Bits di Saline di Volterra, dove si sta vivendo un momento di grande angoscia per l’annuncio del licenziamento di 193 persone e la chiusura di uno stabilimento, l’azienda ha deciso di procedere con la messa in libertà di tutte le maestranze. Rischiando di mettere in ginocchio un intero territorio. Non siamo forse troppo lontani dal mettere al centro le persone se le imprese non riescono a mettere al centro nemmeno i territori?

«È drammaticamente un problema generalizzato: ci sono grandi imprese, vengono, sfruttano i territori e poi se ne vanno. Occorre un cambiamento, è indubbio, e il cambio di paradigma dev’essere operativo. Tempo fa, quando una nota azienda stava chiudendo i battenti in Sardegna, mi colpì l’affermazione di uno dei dipendenti, che disse: “Beh, in qualche modo devono fare profitto”. Quasi come se lui fosse colpevole del loro mancato profitto. È urgente cambiare profilo culturale: il profitto è importante, ma ci sono delle logiche che vanno riviste. Se continuiamo a pensare l’impresa come a una macchina da guerra, ci ritroveremo in guerra. E bisogna tornare alla critica, perché oggi sembra che chi la pratica sia quasi un estremista. Abbiamo una cultura che non ci fa differenziare più il buono dal cattivo, il bello dal brutto. Certo, siamo lontani, e bisognerebbe che la classe politica e la classe dirigente prendessero coscienza di cosa sia l’economia oggi, e poi valorizzare quanto di buono c’è nelle imprese. Premiare le imprese corrette, oneste, mentre noi cittadini dobbiamo diventare più coscienti di questo, scegliendo per i nostri consumi le imprese più sane. Il messaggio per la classe politica, che ha il compito di trasferire questi principi su grande scala, è di sostenere le imprese socialmente orientate e non cedere il territorio al primo che capita».