Al lavoro per cosa? Fmi: con l’invecchiamento della popolazione a rischio la produttività

«Effetti negativi si abbatteranno in modo preoccupante sui paesi che meno possono permetterselo come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia»

[18 Agosto 2016]

Per raggiungere la pensione di vecchiaia, la riforma Fornero ha introdotto ormai dal 2011 nuove soglie d’età: a regime – ovvero dal 1 gennaio 2018 – a suon di scatti progressivi si arriverà a 66 anni e 7 mesi. Dal 2019 il target andrà poi ulteriormente rivisto, adeguandolo alla speranza di vita (che in Italia, per inciso, dopo anni di crescita nel 2015 è tornata a ridursi). Questi numeri nascondono gran parte dell’aumento degli occupati vantato come un successo da parte dell’attuale esecutivo, ma oltre a frenare l’ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni rimuovono uno scomodo interrogativo: qual è l’efficienza di lavoratori sempre più anziani sul luogo di lavoro?

Una prima, parziale risposta arriva da un’analisi appena pubblicato dal Fondo monetario internazionale, che prende a riferimento le dinamiche in corso nell’area euro: The euro area workforce is aging, costing growth. Autori tre economisti del Fmi (Shekhar Aiyar, Christian Ebeke e  Xiaobo Shao), che approfondiscono gli effetti di una popolazione sempre più vecchia – qual è quella dell’area euro, in Italia in particolare – sulla produttività del lavoro. I risultati non sono incoraggianti.

Da una parte,  il numero di pensionati «è destinato a crescere rispetto alle persone in età lavorativa (15-64 anni)», dall’altra ad aumentare sarà anche l’età media dei lavoratori: la quota «compresa tra 55-64 anni è prevista in aumento di un terzo, dal 15% al 20%, nel corso dei prossimi due decenni». Si tratta di persone con un bagaglio d’esperienza importante, utile in un contesto lavorativo, ma è vero anche che «salute fragile e competenze obsolete potrebbero ridurre la produttività, almeno oltre una certa soglia». Tanto da far pendere l’ago della bilancia dal lato sbagliato. «Anche se è difficile generalizzare per i diversi tipi di lavoro, il consenso in letteratura è che la produttività aumenta con l’età in un primo momento, raggiungendo talvolta un picco nei 40 o 50 anni. Poi diminuisce». Contestualizzando nel caso italiano, ciò significa che – nel migliore dei casi – un lavoratore dovrà rimanere al proprio posto in azienda per almeno 6 anni e 7 mesi fornendo prestazioni con sempre minore produttività, e sfavorendo suo malgrado un ricambio generazionale.

«L’invecchiamento – osservano dal Fmi – avrà un notevole tributo sulla crescita della produttività nel medio-lungo termine», riducendone lo sviluppo anche per il 25%. Osservando quanto effettivamente accaduto tra il 1950 e il 2014 nei paesi europei, i tre economisti hanno riscontrato che a un aumento del 5% nella quota di lavoratori 55-64enni, la produttività complessiva del lavoro è diminuita del 3%.

Cosa ci aspetta nel prossimo futuro continuando su questa linea? L’onere dell’invecchiamento della forza lavoro cadrà in modo diseguale tra gli Stati membri della zona euro. Alcuni dei più grandi effetti negativi sulla produttività si abbatteranno in modo preoccupante sui paesi che meno possono permetterselo come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Italia». Come possibili antidoti, gli economisti suggeriscono interventi per migliorare la qualità dei servizi sanitari (e dunque la salute di lavoratori sempre più anziani), politiche attive per il lavoro focalizzate sulla formazione permanente, un taglio del cuneo fiscale sul lavoro, investimenti in ricerca e sviluppo.

Tutti elementi utili e necessari sui quali purtroppo l’Italia non brilla, e ai quali si aggiungono un bassissimo tasso di natalità (1,37 figli per donna) insieme a una crescente diffidenza per l’immigrazione e una fuga all’estero dei già pochi giovani italiani. È nella valorizzazione di questi ultimi, risorse scarse e dunque preziose, che una comunità lungimirante dovrebbe puntare, ma la realtà parla di un terzo dei giovani italiani che ad oggi non studia e non lavora. Stiamo entrando nell’era della stagnazione secolare, che al momento ha la stessa opportunità di tradursi in una decrescita infelice punteggiata da crescenti disuguaglianze economiche, oppure transizione verso un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo, diverso dalla crescita lineare e continua del Pil che abbiamo conosciuto nel breve intervallo di tempo che va dalla seconda rivoluzione industriale alla crisi dei nostri giorni. Investimenti pubblici, ricerca e sviluppo e azioni per ridurre le disuguaglianze sono tutti elementi che possono traghettarci fuori dalle secche: al timone riesce però difficile scorgere qualcuno.