Un problema che ha raggiunto dimensioni preoccupanti soprattutto in Lombardia

Allevamenti e coltivazioni stanno mangiando i terreni agricoli italiani

Lo studio condotto da Greenpeace e Università della Tuscia mostra un’impronta ecologica insostenibile: «L’impatto ambientale è pari a circa una volta e mezza le risorse naturali a disposizione dai terreni agricoli italiani»

[19 Ottobre 2020]

La filiera agroalimentare italiana, con le sue coltivazioni e (soprattutto) con i suoi allevamenti, sta chiedendo troppo ai terreni agricoli italiani: è quanto emerge dal report Il peso della carne, elaborato da Greenpeace insieme ad alcuni ricercatori dell’Università degli studi della Tuscia.

«In Italia agricoltura e zootecnia sono nel loro insieme insostenibili e creano un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali – spiega Silvio Franco, docente e autore dello studio – L’impatto ambientale dell’insieme delle attività di coltivazione e di allevamento è pari a circa una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani».

L’indicatore utilizzato è quello dell’impronta ecologica, che stima l’impatto di un dato settore in rapporto alla capacità del territorio (biocapacità) di fornire le risorse necessarie e assorbire i rifiuti o le emissioni prodotte. È lo stesso usato per calcolare l’overshoot day, che quest’anno è caduto in Italia il 14 maggio, il che significa che il resto dell’anno lo stiamo vivendo a debito con la natura, erodendo il capitale naturale che ci mettono a disposizione i territori italiani e limitando dunque la possibilità di ricavarne servizi ecosistemici (cibo, acqua e aria pulita, etc) in futuro. Ad oggi ogni italiano con il suo stile di vita consuma 5 volte più risorse di quante ne avrebbe a disposizione, e il cibo che mangiamo ha il suo peso sul piatto della bilancia.

In questo studio su un lato della bilancia sono state messe le sole emissioni dirette degli animali allevati, sull’altro le risorse naturali che la superficie agricola italiana fornisce. Si tratta quindi di una stima conservativa, che mostra comunque come gli allevamenti da soli richiedano il 39% delle risorse agricole italiane solo per compensare le emissioni di gas serra derivate da deiezioni e fermentazione enterica degli animali allevati.

Dati che non devono essere impiegati per demonizzare la filiera agroalimentare italiana, che nel complesso rappresenta un’eccellenza a livello globale, ma per individuarne al meglio le debolezze: se un sistema è insostenibile significa che non può durare nel tempo, ed è dunque interesse comune cambiarlo in meglio. Soprattutto sapendo già che dagli allevamenti arriva il 16,6% delle emissioni nazionali di PM2.5 e larga parte (l’80% circa) delle emissioni di gas serra e di ammoniaca legate al comparto agroalimentare.

Si tratta di problemi in larga parte concentrati nel bacino padano e in Lombardia in particolare. Secondo lo studio condotto da Greenpeace e Università della Tuscia, infatti, più della metà dell’impronta ecologica del settore zootecnico dipende dalle regioni del Bacino Padano e quello della Lombardia contribuisce da solo per oltre un quarto all’impatto nazionale e sta divorando il 140% della biocapacità regionale. La Lombardia dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per compensare le sole emissioni degli animali allevati sul suo territorio. In altre regioni, che pure presentano criticità, i dati mostrano una situazione comunque ben lontana dal 140% lombardo (il Veneto si ferma al 64%, il Piemonte al 56%, la Campania al 52% e l’Emilia-Romagna al 44%).

Che fare? Il motto consumare meno, consumare meglio, è sempre di grande attualità (pur sapendo che, con tutta probabilità, questo significherebbe accettare prezzi maggiori per la carne made in Italy che compriamo). «Una maggiore attenzione a salute e alimentazione può comportare un vero e proprio cambiamento di sistema, che porti a produrre, ma anche, a consumare meno», spiega Riccardo De Lauretis, responsabile dell’area emissioni e prevenzione dell’Ispra, in accordo con Adrian Leip, dell’Unità Food Security del Jrc europeo: «Studi fatti finora mostrano come le tecnologie che abbiamo a disposizione nel settore allevamenti non saranno sufficienti per rispondere alle ambizioni di riduzione dell’effetto serra».

Anche la politica può e deve dare una mano per governare la transizione verso colture e allevamenti più sostenibili. In primis attraverso una riforma adeguata della Pac (Politica agricola comune), che convoglia una gran quantità di risorse europee: sono stati oltre 400 miliardi di euro quelli stanziati per il periodo 2014-20204 (ovvero il 38% dell’intero bilancio Ue), ma come dichiarano da Greenpeace «ad oggi un terzo dei fondi Pac finisce nelle tasche di appena l’1% delle aziende agricole europee mentre tra il 18 e il 20% del budget annuale dell’Ue è destinato ad allevamenti intensivi e mangimistica».

Il Parlamento europeo è chiamato proprio nei prossimi giorni a esprimersi sulla Pac, ma desta forte preoccupazione l’accordo trasversale nel merito cui sarebbero giunti Popolari (Ppe), Socialisti (S&D) e Renew.

«Il voto sulla futura Pac è un momento decisivo – commenta dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia – per tagliare i fondi agli allevamenti intensivi e destinare risorse per una vera riconversione ecologica del settore. I nostri europarlamentari devono dare ascolto alla scienza. Sul fronte Italiano è la stessa ministra Bellanova ad affermare che serve una visione della politica agricola che ponga al centro il contrasto all’emergenza climatica»  – continua Ferrario, riferendosi all’intervista rilasciata a Greenpeace dalla ministra – «I numeri mostrano che gli attuali livelli di produzione sono insostenibili per l’ambiente e poco remunerativi per tanti allevatori italiani, mentre gli esperti confermano che le soluzioni tecnologiche non bastano a ridurne gli impatti. È ora di considerare seriamente una riduzione della produzione e del consumo di prodotti di origine animale, a vantaggio della qualità, della salute e dell’ambiente».