Concentrarsi sulle fasi di consumo e post-consumo non basta

Contro lo spreco di cibo stiamo sbagliando tutto

Tra inefficienze e sovralimentazione in Italia sprechiamo più di quello che mangiamo. Ispra: «Speciale enfasi dovrebbe essere assegnata allo sviluppo locale autosostenibile, organizzato in reti cooperative paritarie e diversificate»

[5 Febbraio 2019]

Si celebra oggi la VI Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, ma c’è ben poco da festeggiare perché reali progressi in materia sono ancora molto lontani. Nel mondo 821 milioni di persone soffrono la fame, 1/3 della popolazione è malnutrita ma al contempo 1 su 8 soffre di obesità; un crudele paradosso cui non sfugge neanche l’Italia.

Secondo i dati presentati ieri alla Fao da Waste watcher vale oltre 15 miliardi di euro, che sono la somma dello spreco alimentare di filiera (circa 3 miliardi di euro) e di quello domestico reale, cioè quello misurato nelle case degli italiani attraverso il test dei “diari di famiglia”, che in quest’ottica rappresenta i 4/5 dello spreco complessivo di cibo in Italia. È operando in quest’ottica, incentrata nella lotta allo spreco prevalentemente sulle fasi di consumo e post-consumo, che nel 2016 è stata varata la pur lodevole legge Gadda, che secondo l’analisi fornita dalla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition ha  promosso «la redistribuzione delle eccedenze e dei beni inutilizzati per fini di solidarietà sociale, con un aumento delle donazioni del +21% nel primo anno di vita della legge». Un passaggio che, sempre secondo la Fondazione, ha contribuito ad accelerare nella riduzione degli sprechi di cibo, passati nell’ultimo decennio da 95 kg procapite a 65.

Simili approcci rischiano però di non mettere a fuoco il cuore del problema, come argomentato già due anni fa dall’Ispra e ribadito oggi dall’Istituto nel nuovo rapporto Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali. Da quest’analisi emerge che, nonostante gli sforzi profusi a contrasto, nel mondo «lo spreco sistemico complessivo (compresa anche l’inefficienza degli allevamenti) aumenta circa del 3,2% l’anno», e in Italia non va granché meglio: «Mediamente tra il 2007 e il 2015 lo spreco alimentare comprendente sovralimentazione e uso per allevamenti potrebbe essere di circa 4160 kcal/persona/giorno […] Ciò significherebbe che in Italia potrebbe essere sprecata (al netto delle variazioni di riserve) almeno il 62,7% dell’energia alimentare contenuta nella produzione primaria edibile (a inizio prelievi) destinata direttamente o indirettamente all’uomo». Ovvero sprechiamo più di quello che mangiamo, e da questo punto di vista concentrare la quasi totalità dell’attenzione su cosa accade tra il frigorifero e il cestino di casa potrebbe essere controproducente: ciò che occorre è «un approccio sistemico che allarghi l’attenzione anche alle cause strutturali».

In altre parole, la tendenza stesso allo spreco alimentare «è legata al modello agroindustriale fondato sull’impiego di fonti fossili di energia e di input chimici di sintesi, sulla finanziarizzazione, sui commerci internazionali, sulla concentrazione dei mercati e sull’esternalizzazione dei costi ambientali e sociali, che sono tra i principali problemi che bloccano lo sviluppo di sistemi alimentari resilienti». È il modello di produzione e consumo attualmente prevalente che «per sua natura comporta un’elevata produzione di eccedenze e sprechi», e affrontare la questione attraverso la «riduzione dei rifiuti nel consumo e sulla redistribuzione caritativa, potrebbe produrre un effetto sistemico di “copertura” dei problemi principali costituiti dalla sovrapproduzione e dalla sovralimentazione media».

In altre parole, per combattere davvero lo spreco alimentare serve una rivoluzione del cibo a tutto tondo. «Nei paesi sviluppati, come l’Italia e i Paesi dell’Ue, la ristrutturazione dei sistemi alimentari deve procedere al riconoscimento di un equo valore sociale, culturale ed economico degli alimenti, anche per riequilibrare le condizioni sociali di accesso e di produzione», e una «speciale enfasi dovrebbe essere assegnata allo sviluppo locale autosostenibile, organizzato in reti cooperative paritarie e diversificate». Certo, non si tratta di una transizione semplice né veloce, ma prendere atto che al momento non ci stiamo neanche provando sarebbe già un primo passo.