I cambiamenti climatici costano all’Italia più della crisi economica

Uno studio internazionale mostra che anche le nazioni ricche e con climi temperati sono tutt’altro che immuni: se l’Accordo di Parigi non sarà rispettato gli italiani perderanno il 7% del proprio Pil procapite, i russi l’8,93% e gli statunitensi il 10,52%

[19 Agosto 2019]

La lotta ai cambiamenti climatici ha un grosso problema: i loro effetti impattano soprattutto sui paesi poveri (che per inciso sono anche quelli che emettono meno CO2), mentre i principali responsabili sono i Paesi ricchi, con le emissioni di gas serra procapite più alte, che generalmente si trovano in zone climatiche temperate e più al riparo dagli effetti del riscaldamento globale, tutti fattori che li rendono più restii ad agire. Giusto? Sbagliato, come spiega lo studio Long-Term Macroeconomic Effects of Climate Change: A Cross-Country Analysis, pubblicato oggi dallo statunitense National Bureau of Economic Research. I paesi ricchi – come l’Italia – hanno moltissimo da perdere dai cambiamenti climatici, semmai il problema è che non se ne rendono conto.

Per elaborare lo studio i ricercatori delle Università di Cambridge (UK), della Southern California (USA), Johns Hopkins (USA) National Tsing Hua University (Taiwan) e del Fondo monetario internazionale hanno preso in esame dati provenienti da 174 paesi a partire dal 1960, proiettandoli al 2030, 2050 e 2010 per determinare la perdita o il guadagno di Pil procapite sulla base di due scenari: nel “business as usual” si prevede che le temperature globali medie aumentino di 4°C entro la fine del secolo, mentre l’altro si basa sul rispetto dell’Accordo di Parigi sul clima (ovvero con temperature entro i +2°C rispetto all’era pre-industriale al 2100).

Se l’avanzata dei cambiamenti climatici proseguirà col trend attuale soltanto 1 stato sui 174 studiati non registrerà una perdita di Pil procapite da qui al 2100: le Bahamas. Tutti gli altri ci rimetteranno – i ricercatori stimano perdite pari al 7% del Pil globale legate ai cambiamenti climatici entro la fine del secolo –, non importa quanto ricchi siano o quanto sia freddo il loro clima. La Groenlandia perderà il 4,10% del suo Pil procapite, la Russia l’8,93%, gli Usa il 10,52%, la Svizzera il 12,24%, il Canada il 13,08%. Un trend cui non sfugge neanche la Scandinavia – Islanda -1%, Finlandia -1,02%, Danimarca -1,63%, Norvegia -1,8%, Svezia -2,67% –, per non parlare del resto d’Europa: Germania -1,92%, Regno Unito -3,97%, Francia -5,82%, Spagna -6,39%.

«L’idea che le nazioni ricche e con climi temperati siano economicamente immuni ai cambiamenti climatici, o che potrebbero addirittura raddoppiare e triplicare la loro ricchezza, sembra semplicemente non plausibile», afferma dall’Università di Cambridge l’economista Kamiar Mohaddes, coautore dello studio. Eppure di questo scenario catastrofico non c’è adeguata percezione, e ci stiamo correndo incontro a gran velocità: la Noaa ha appena confermato come luglio 2019 – il mese più caldo mai registrato al mondo – rappresenti  il 415° mese consecutivo con temperature globali superiori alla media, mentre il Programma Onu per l’ambiente (Unep) informa che nel corso degli ultimi 20 anni oltre il 90% dei disastri naturali sia correlato al clima (con inondazioni e tempeste in cima alla lista).

Naturalmente non andrebbe in modo diverso in Italia, dove già oggi il clima si riscalda a velocità doppia rispetto alla media globale. Nello scenario “business as usual” i cambiamenti climatici tagliano il nostro Pil procapite dello 0,89% nel 2030, del 2,56% nel 2050 e del 7,01% nel 2100. Per inquadrare meglio la dimensione del problema è utile ricordare che in 10 anni della più terribile crisi economica del dopoguerra – ovvero dal 2008 al 2018 – il Pil procapite italiano si è ridotto molto meno, del 5,4%. Se questo non costituisse ancora un adeguato incentivo economico all’azione, lo studio mostra che rispettando l’Accordo di Parigi sul clima le perdite di Pil procapite sarebbero praticamente azzerate per l’Italia, riducendosi a -0,01%, -0,02% e -0,05 rispettivamente nel 2030, 2050 e 2100.

«Se le nazioni avanzate vogliono evitare gravi danni economici nei prossimi decenni, l’Accordo di Parigi è un buon inizio», conclude Mohaddes. Peccato però che il Piano nazionale integrato energia e clima proposto dall’attuale Governo nazionale non copra neanche un terzo dell’impegno necessario a rispettare l’Accordo di Parigi, e che il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici sia chiuso in un cassetto ormai da due anni: in questi giorni di rovente crisi politica, se partiti e istituzioni vogliono cambiare marcia devono ripartire da qui.