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I (tanti) punti di contatto tra l’industria energetica e quella agroalimentare

Il buon funzionamento del sistema agroalimentare è indispensabile alla sopravvivenza della nostra società: questo impone la necessità di un’evoluzione del comparto su binari più sostenibili

[4 Dicembre 2019]

La nostra dieta, insieme all’articolata industria agroalimentare che la sostiene, ha un impatto imponente sull’ambiente in termini di risorse naturali consumate e di contributo al riscaldamento globale. Secondo il rapporto speciale prodotto dall’Ipcc su cambiamenti climatici e uso del suolo, circa il 23% delle emissioni di gas serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo; l’agricoltura, inoltre, è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas serra molto potenti.

Anche a livello nazionale l’impatto del settore è assai rilevante: nell’ultimo inventario delle emissioni elaborato dall’Ispra emerge ad esempio che il settore dell’agricoltura è responsabile del 7,1% di tutte le emissioni nazionali di gas climalteranti – una cifra di poco inferiore a quella relativa al comparto industriale, 7,5% –, mentre l’Istat certifica che più del 50% del volume di acqua complessivamente utilizzato in Italia è destinato all’irrigazione.

Nonostante i suoi impatti, il buon funzionamento del sistema agroalimentare è indispensabile alla sopravvivenza della nostra società; questo impone la necessità di un’evoluzione del comparto su binari più sostenibili, un processo che è già in corso e che potrebbe accelerare notevolmente mettendo a rete l’esperienza delle singole realtà d’eccellenza presenti in Italia e nel mondo. Sotto questo profilo appaiono di particolare interesse i punti di contatto tra l’industria energetica e quella agroalimentare, che presentano importanti potenzialità in termini di economia circolare trasformando una quota crescente di scarti in risorse.

Da questo punto di vista uno degli approcci più innovativi sta sbocciando nei territori geotermici della Toscana, dove a Chiusdino un impianto pilota permette di produrre spirulina con vantaggi ambientali ed economici impiegando “scarti” della produzione geotermoelettrica: calore residuo e CO2. Ad oggi più del 90% della spirulina che si trova sul mercato italiano ed europeo proviene dalla Cina, che si è attestata come il più grande produttore mondiale di questa microalga impiegata nei più svariati settori, da quello alimentare e della nutraceutica, al farmaceutico e biocosmetico. A gennaio 2017 Enel Green Power e CoSviG (il Consorzio per lo sviluppo delle aree geotermiche) hanno firmato un accordo, investendo 100.000 euro ciascuno, per realizzare presso la centrale geotermica Chiusdino 1 un impianto sperimentale per la coltivazione della spirulina che possa svilupparsi in simbiosi con la produzione di energia pulita: la spirulina cresce infatti utilizzando quelli che potrebbero essere definiti “scarti” della produzione geotermoelettrica, ovvero il calore e la CO2 – sostitutiva di emissioni naturali – in uscita dalla centrale geotermoelettrica. Entrambi molto utili per favorire la crescita dell’alga spirulina, con costi ridotti rispetto a impianti tradizionali: i dati raccolti mostrano che non soltanto vengono ridotti i costi di circa il 30% grazie al calore da fonte geotermica e alla disponibilità di CO2 carbon free, ma anche la produzione dell’alga stessa in questo ambiente fa registrare un incremento del 25% rispetto alla produzione standard in altri ambienti.

E se la spirulina rappresenta un mercato futuribile, un caso scuola è ormai rappresentato dalla Comunità del cibo a energie rinnovabili (Ccer), l’ambizioso progetto nato esattamente dieci anni fa grazie a un’intesa tra Slow Food Toscana, Fondazione Slow Food per la biodiversità e CoSviG che ha dato vita alla “prima Comunità del Cibo al mondo ad energia pulita e rinnovabile che opera nel settore agroalimentare e che insiste sui metodi di produzione oltre che sui prodotti”. Attualmente sono 29 le aziende toscane, di cui 7 appena arrivate, che costituiscono la Ccer, accomunate dall’impiego “predominante di energie rinnovabili nel proprio processo produttivo, materie prime esclusivamente toscane e sede produttiva all’interno della regione toscana”: in tutti i casi i tratti caratterizzanti sono la presenza di una filiera corta, il rilancio di forme di agricoltura sostenibile ed il recupero di produzioni tradizionali tipiche di alta qualità ed a rischio scomparsa.

Una realtà d’eccellenza, che è stata analizzata come caso virtuoso dall’Alleanza globale per la geotermia e che tra le aziende più note vede la presenza di Vapori di Birra, il primo birrificio artigianale in Italia che impiega il calore residuo della vicina centrale geotermoelettrica come fonte di energia per il processo industriale brassicolo, tanto da vincere nel 2017 il premio “Rinnovabili e cibo di qualità” conferitogli da Legambiente; per l’originalità del suo approccio al ciclo produttivo, Vapori di Birra è stato oggetto di studi internazionali, con la Hanze University of Applied Sciences di Groningen che ha documentato come la birra prodotta grazie alle rinnovabili sia circa 20 volte più sostenibile rispetto a quella prodotta con fonti fossili.

Guardando ai più promettenti punti di contatto tra economia circolare, produzione di energia e filiere agroalimentari di qualità è inoltre indispensabile citare il ruolo ricoperto dallo sviluppo del biogas. Ad oggi è proprio il gas la fonte energetica che più di ogni altra soddisfa la nostra domanda di energia primaria (con una copertura del 36,2% nel 2017), ma siamo costretti a importarne dall’estero oltre il 90%, attingendo da fonti fossili e da Paesi come Russia, Algeria, Libia. In questo contesto un’importante alternativa può arrivare dall’adeguata valorizzazione degli scarti agricoli: si stima che l’Italia presenti un potenziale produttivo di biometano alto, pari al 2030 in 10 miliardi di metri cubi, di cui almeno otto da matrici agricole, pari a circa il 10% dell’attuale fabbisogno annuo di gas naturale e ai due terzi della potenzialità di stoccaggio della rete nazionale. Per avere una pietra di paragone, 10 miliardi di metri cubi di gas sono circa il doppio rispetto ai 5,4 estratti in tutta Italia (prevalentemente in Adriatico) durante l’intero 2018. Il biometano sarebbe, inoltre, una fonte energetica rinnovabile e programmabile in grado di rispondere agli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra.

In quest’ottica un grande balzo per l’economia circolare e l’agricoltura 2.0 italiana è stato compiuto pochi mesi fa in provincia di Faenza, dove la cooperativa vitivinicola Caviro ha inaugurato il primo impianto di produzione di biometano agricolo in Italia, che produrrà biocarburante avanzato partendo dal biogas generato con la digestione anaerobica dei sotto-prodotti del ciclo produttivo e da reflui di allevamenti della zona. «L’immissione in rete del primo metro cubo di gas rinnovabile di origine agro-industriale è un momento storico per tutta l’agricoltura italiana – ha spiegato per l’occasione Piero Gattoni, presidente del Consorzio italiano biogas – Caviro è un esempio virtuoso di coesistenza tra agricoltura e produzione di gas rinnovabile che mi auguro potrà essere presto seguito da altri».