L’Italia a confronto con gli altri Paesi Ocse: il sistema italiano di formazione permanente non è attrezzato per le sfide future

Il futuro del lavoro si decide ora. E l’Italia non è pronta (VIDEO)

Nel nostro Paese i posti di lavoro ad alto rischio di automazione sono il 15,2%, e un altro 35,5% potrebbe subire "sostanziali cambiamenti" con l'avanzata delle nuove tecnologie

[26 Aprile 2019]

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pubblicato il suo “Employment Outlook 2019 – Act now to build a future that works for all #thefutureofwork” e dice che «I cambiamenti legati alle nuove tecnologie e alla globalizzazione trasformano rapidamente i nostri modi di lavorare e di vivere. Se abbiamo parlato moto del futuro del lavoro, adesso bisogna passare agli atti. Il futuro del lavoro offre opportunità impareggiabili, ma anche sfide significative. La globalizzazione, il progresso tecnologico e il cambiamento demografico stanno avendo un profondo impatto sulla società e sui mercati del lavoro. E’ fondamentale che le politiche aiutino i lavoratori e la società in generale a gestire la transizione con il minimo disturbo possibile, massimizzando al contempo i potenziali benefici».

Il rapporto presenta anche schede per ogni Paese membro dell’Ocse e in quella che confronta l’Italia con gli altri Stati che fanno parte dell’organizzazione dei Paesi industrializzati si legge che nel nostro Paese «nonostante una preoccupazione diffusa che i cambiamenti tecnologici e la globalizzazione possano distruggere molti posti di lavoro, è improbabile un forte calo dell’occupazione complessiva. Mentre alcuni posti di lavoro potrebbero scomparire (il 14% è ad alto rischio di automazione in media tra i paesi Ocse), nuovi lavori saranno creati. Inoltre, sino ad ora l’occupazione complessiva è aumentata. Tuttavia, la transizione non sarà facile. Vi sono preoccupazioni sulla qualità di alcuni dei nuovi posti di lavoro che sono creati e, senza un’azione immediata, le disparità del mercato del lavoro potrebbero aumentare, dato che alcuni lavoratori affrontano rischi maggiori di altri».

Il rapporto fa notare che «in Italia, i posti di lavoro ad alto rischio di automazione sono appena al di sopra della media Ocse: il 15,2%. Un altro 35,5% potrebbe subire sostanziali cambiamenti nel modo in cui vengono svolti; questi posti di lavoro rimarranno ma con mansioni molto diverse da quelle attuali».

Però «La quota di lavoro temporaneo è superiore alla media Ocse ed è cresciuta notevolmente nell’ultimo decennio. Inoltre, la quota di lavoratori sotto occupati è più che raddoppiata dal 2006, ed è ora la più alta tra i paesi Ocse. L’incidenza di lavoratori autonomi che dipendono finanziariamente da un solo cliente – un gruppo particolarmente vulnerabile tra i lavoratori autonomi – è appena inferiore alla media Ocse».

L’Organizzazione sottolinea che «Le regole e istituzioni del mercato del lavoro svolgono un ruolo importante nel proteggere i lavoratori, ma molti di coloro che hanno contratti “atipici” (non a tempo indeterminato) spesso hanno protezioni solo parziali. Le tutele dei lavoratori atipici possono essere rafforzate estendendo alcuni diritti anche a chi sta nella zona grigia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, compresi molti lavoratori delle piattaforme digitali. La formazione permanente è fondamentale per aiutare i lavoratori più vulnerabili a destreggiarsi in un mercato del lavoro in cambiamento. L’apprendimento durante tutta la vita lavorativa è sempre più importante per permettere ai lavoratori di adeguare le proprie competenze alle esigenze di un mercato del lavoro in mutazione continua. Tuttavia, la maggior parte dei sistemi di formazione continua per adulti non è ben equipaggiata per questa sfida. Il 40% degli adulti partecipa alla formazione in media in un dato anno nei paesi Ocse, ma chi ne ha più bisogno (i lavoratori a bassa qualifica e quelli con contratti atipici) riceve meno formazione e non sempre di buona qualità».

Il problema per il nostro Paese è che «Il sistema italiano di formazione permanente non è attrezzato per le sfide future. Solo il 20,1% degli adulti in Italia ha partecipato a programmi di formazione professionale nell’anno precedente la rilevazione. Inoltre, solo il 60% delle imprese (con almeno 10 dipendenti) offre formazione continua ai propri dipendenti, contro una media europea Ocse del 75,2%. Inoltre, vi è un grande divario (circa 38 punti percentuali) nell’accesso alla formazione professionale tra lavoratori ad alta e bassa qualifica, appena al di sotto della media Ocse (39,3 punti percentuali)».

Anche qui la possibilità di una maggiore equità che attenui le conseguenze della globalizzazione neoliberista è affidata ai tanto bistrattati sindacati: «La contrattazione collettiva può integrare le politiche pubbliche nel campo della formazione. Nel 2016, ad esempio, i sindacati del settore metalmeccanico in Italia hanno negoziato aumenti salariali inferiori alle attese in cambio di formazione per tutti i lavoratori, indipendentemente dall’azienda per cui lavorano. Tuttavia, l’attuazione di questa parte dell’accordo rimane ancora limitata per difficoltà pratiche di implementazione».

Ma nel nuovo e più ingiusto mercato del lavoro c’è un altro problema sempre più evidente e colto anche dal rapporto Ocse: «L’accesso agli strumenti di protezione sociale è più difficile per i lavoratori con contratti di lavoro atipici. In alcuni paesi, i lavoratori con contratti a termine di breve durata o a tempo parziale e soprattutto i lavoratori autonomi hanno una minore probabilità di ricevere qualsiasi forma di sostegno al reddito durante un periodo di assenza di lavoro rispetto ai dipendenti con contratti di lavoro a tempo pieno e indeterminato. In un mercato del lavoro in cui i contratti atipici potrebbero aumentare ulteriormente, occorre offrire a tutti i lavoratori accesso alla protezione sociale per evitare ulteriori aumenti delle diseguaglianze. Rispetto agli altri paesi Ocse, l’accesso alle misure di sostegno di reddito in Italia è relativamente limitato, mentre i livelli dei trasferimenti ai beneficiari sono spesso piuttosto elevati. Rispetto ad altri paesi europei, i lavoratori a tempo parziale in Italia godono di un sostegno al reddito in caso d’inattività simile a quello dei lavoratori con contratto a tempo pieno e indeterminato. Invece, i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti con periodi contributivi intermittenti hanno un accesso più difficile alla protezione sociale. Ad esempio, la probabilità di ricevere un sostegno al reddito è solo del 10% per un lavoratore autonomo senza attività che fa parte di un nucleo familiare a basso reddito composto da due adulti e senza figli e che aveva in precedenza un reddito mediano. Per un lavoratore dipendente con un contratto a tempo indeterminato nella stessa situazione socio-economica la probabilità è più del 50%».

La scheda Ocse per il nostro Paese riserva un breve cenno anche al reddito di cittadinanza: «L’Italia ha ampliato significativamente gli strumenti di sostegno al reddito per le persone a rischio povertà nel 2018 e nel 2019. Nel 2015, ha anche introdotto una serie di modifiche al sistema degli ammortizzatori sociali volte ad ampliare la platea dei beneficiari. Tuttavia, assicurare adeguati strumenti di protezione per i lavoratori autonomi rimane una sfida aperta. Il Reddito di Cittadinanza introdotto di recente rappresenta un trasferimento di risorse importante verso le persone in condizioni di povertà. Tuttavia, il livello attuale del sussidio è elevato rispetto ai redditi mediani italiani e relativamente a strumenti simili negli altri paesi Ocse. La sua messa in opera dovrà essere monitorata attentamente per assicurare che i beneficiari siano accompagnati verso adeguate opportunità di lavoro».

Per quanto riguarda l’Italia il rapporto conclude premendo su un tasto tanto dolente quanto trascurato: «Il sistema italiano di servizi pubblici per l’impiego manca di personale qualificato, di strumenti informatici e di risorse adeguate e, per queste ragioni, la qualità dei servizi è bassa e varia notevolmente attraverso il paese. Oltre ad ulteriori risorse, occorre migliorare il coordinamento tra le autorità centrali e quelle regionali responsabili dell’implementazione delle politiche attive, anche attraverso linee guida comuni per un miglioramento dei servizi per l’impiego».

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