Il programma italiano per la transizione ecologica è già in ritardo

Nel frattempo continua a crescere la confusione sul fronte dell’economia circolare, con percezioni distorte (a partire dal ministro) sugli obiettivi Ue di gestione rifiuti e filiera impiantistica conseguente

[15 Giugno 2021]

A poche settimane dall’insediamento del Governo Draghi, con l’arrivo di Roberto Cingolani alla guida del dicastero della Transizione ecologica (Mite), il ministro aveva indicato quattro priorità al Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa): «Far comprendere cos’è la transizione ecologica, mettere a punto il Recovery plan, presentare il programma per la transizione ecologica entro fine maggio, dare vita al ministero della Transizione ecologica», fino ad allora ministero dell’Ambiente.

Di questi quattro obiettivi, almeno la metà sembra ancora in alto mare. Il Recovery plan (ovvero il Piano nazionale di ripresa e resilienza, Pnrr) è stato inviato alla Commissione europea entro i tempi previsti, e il nuovo dicastero sta nascendo a partire dalla riorganizzazione delle direzioni generali. Ma del programma per la transizione ecologica non c’è traccia (a metà marzo sono state semplicemente illustrate in Parlamento le linee programmatiche del ministero) e soprattutto lo stesso ministro sembra ancora molto confuso su come comunicare e “far comprendere cos’è la transizione ecologica”, come mostra l’intervista andata ieri in onda su Radio24.

La premessa è che il ministro nonostante tutto sembra muoversi con le migliori intenzioni. Rispondendo a una domanda volta a capire come superare le sindromi Nimby e Nimto che bloccano ovunque lo sviluppo delle fonti rinnovabili, Cingolani è stato molto franco spiegando l’importanza di una buona comunicazione e informazione ambientale: «Più che gestire il dissenso penso che bisogna creare un po’ di consapevolezza, quando c’è da gestire il dissenso vuol dire che non è stato spiegato quello che bisogna fare. Qual è stato lo sforzo che abbiamo fatto, che facciamo e che faremo per spiegare a tutti quanti quali sono i vantaggi e i costi di quest’operazione? La prima responsabilità è quella di far capire e di spiegare».

Spiegando però anche, sottolinea sempre il ministro, l’ineluttabilità di un robusto incremento nella diffusione degli impianti necessari per catturare il sole, il vento o la geotermia: «Non abbiamo un’altra soluzione come non ce l’hanno gli altri Paesi. Il Paese ha fatto delle scelte molto precise in fatto di energia, quindi quello che possiamo fare in questo momento è essenzialmente solare, eolico, un po’ di geotermico dove possibile e con questo nei prossimi nove anni dobbiamo arrivare a produrre il 70% di energia elettrica. Quindi o stiamo nell’Accordo di Tokyo (in realtà l’Accordo è quello di Parigi, ndr) e lo facciamo o ci prendiamo la responsabilità di uscire».

Lo stesso Cingolani, pochi minuti dopo, non tiene però fede al suo impegno di “far comprendere cos’è la transizione ecologica” quando parla di economia circolare.

«Il nostro – argomenta il ministro – è un Paese che continua ad essere uno dei migliori al mondo nell’economia circolare. Noi abbiamo all’ordine del giorno nel Recovery plan la composizione magica della filiera del rifiuto, che è 65-10-25: il 65% del rifiuto deve essere riciclato, il 10% va in discarica e il 25% è l’umido che può essere riutilizzato in altri modi».

Si tratta di un errore marchiano: il riferimento è ai target europei recepiti lo scorso agosto dal Governo italiano, che indicano – per i rifiuti urbani – di portare il riciclo ad almeno il 55% entro il 2025, al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035. In parallelo, sempre per i soli rifiuti urbani, è prevista la diminuzione dell’uso delle discariche, dove entro il 2035 dovrà essere conferito al massimo il 10% dei rifiuti urbani prodotti. Il che significa al contempo che per la rimanente quota del 25% c’è il recupero energetico, che non c’entra niente con i rifiuti organici se non nella misura in cui da questi è possibile ricavare biogas e dunque energia.

Se queste sono le premesse, è ovvio che anche la successiva domanda posta al ministro – sulla necessità o meno di realizzare nuovi termovalorizzatori in Italia – porti a una risposta sballata: «I termovalorizzatori hanno in questo 65-10-25 una parziale utilizzazione (ce ne sono anche in Italia che funzionano) e fanno parte della filiera. Finché non avremo risolto il problema del Sud quelli che ci sono  bastano (ovvero 37 in tutto il Paese, sebbene il 70,7% dei rifiuti urbani viene incenerito al nord mostrando ampie disparità impiantistiche, ndr), è ovvio che se la scelta dopo è portare migliaia di camion che portano a centinaia di km di distanza l’immondizia… ci sono ben altri problemi alla base che dobbiamo risolvere».

Quali non è dato sapere. Anche perché dovrebbe essere il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, richiamato anche all’interno del Pnrr e da redigere entro marzo 2022 a indicare se costruire nuovi termovalorizzatori ed eventualmente dove, come per tutto il resto dell’impiantistica a servizio della gestione rifiuti. Ma il ministro Cingolani sembra averlo dimenticato, e lo stesso vale per i rifiuti speciali di cui non parla mai (nemmeno nel Pnrr): peccato siano oltre il quintuplo dei rifiuti urbani e soffrano anch’essi di ampi deficit impiantistici.