L’accordo per il libero commercio tra i paesi del Pacifico è stato firmato

Il via libera al Tpp e le insidie nascoste della globalizzazione 2.0

Per gli Usa «opportunità storica per proteggere oceani, foreste, fauna». Stiglitz: «Una farsa»

[6 Ottobre 2015]

Dopo un ultimo giro di trattative no-stop condotte nella città di Atlanta, in Georgia, ieri si sono infine conclusi i negoziati sul Trans-pacific partnership (Tpp): l’accordo di libero scambio per l’area del Pacifico è stato raggiunto, e festeggiato come un grande traguardo dall’amministrazione Obama, regista dell’intesa. Finita la trattativa, se ne apriranno però ora 12: tante quante gli Stati aderenti all’intesa, i rispettivi parlamenti dovranno esprimersi nel merito, adottando o meno il testo.

Documento che, come nella migliore tradizione del Tpp – e del corrispettivo euro-americano, il Ttip – ancora non è stato reso disponibile nella sua interezza, nonostante da mesi i delegati dei 12 stati vi lavorino e abbiano raggiunto ieri l’intesa definitiva sul testo. Obiettivamente, non il miglior viatico per quello che viene oggi festeggiato dai fautori come il più grande accordo per il libero scambio che il commercio mondiale abbia visto almeno dal 1995 a questa parte, quando venne creato il Wto (la World trade organization).

Indubbiamente l’accordo (una volta ratificato dai parlamenti nazionali) si mostra di portata storica. Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Usa e Vietnam rappresentano oggi il 40% del commercio globale, e il Ttp li impegna ad abbattere o ridurre drasticamente ogni forma di dazio o barriera alla libera circolazione delle merci. «La creazione dell’area di libero scambio del Pacifico – ha commentato Carlo Calenda, viceministro italiano dello Sviluppo economico – non potrà che facilitare i negoziati fra gli Usa e l’Ue. E, a quel punto, se anche il Ttip diventerà una realtà, saremo solo all’inizio».

Il problema, nella versione 2.0 della globalizzazione, è che riguarda come sempre le merci, lasciando però indietro persone, ambiente e diritti. Anche a causa della segretezza che ha da sempre contraddistinto le trattative attorno al Tpp e al Ttip, le zone grigie rimangono molte. Secondo la Casa bianca, l’accordo trans-pacifico rappresenta «un’opportunità storica per proteggere i nostri oceani, le foreste, e la fauna selvatica», e riporta commenti di associazioni ambientaliste meritevoli di credito come il Wwf che dichiarano un prudente appoggio al Tpp. Le stesse associazioni (Wwf compreso), prendono però le distanze: prima – dicono – dovrà essere valutato il testo finale.

I vantaggi ambientali, se ci saranno, sembrano comunque limitati alla salvaguardia della fauna selvatica e poco più, aumentando i rischi per ciò che rimane – a partire dalla lotta al cambiamento climatico. Così, la maggioranza degli ambientalisti già oggi si mostra però netta nel suo giudizio, opponendosi all’intesa commerciale. «Il Tpp – dichiara al proposito Michael Brune, direttore esecutivo della più grande associazione ambientalista Usa, Sierra Club – legittima i grandi inquinatori a sfidare la tutela del clima e dell’ambiente all’interno dei tribunali commerciali».

Una dose di critiche e scetticismo forte quanto trasversale, la stessa mostrata in Europa contro il Ttip e che affonda le radici in un principio comune, evidenziato con chiarezza dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e dal collega Adam Hersh su Project syndacate, alla vigilia dell’intesa sul Tpp: L’accordo più importante della storia sul commercio e gli investimenti non è quello che sembra. Si sentirà parlare molto dell’importanza del Tpp per il “libero commercio”. La realtà è che si tratta di un accordo che punta a gestire le relazioni di investimento e di commercio dei suoi membri – e a farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Badate bene: è evidente, considerando le principali questioni sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il Tpp non riguarda il “libero” commercio».

Un esempio pratico di questa lettura risiede nei sistemi di regolazione delle controversie tra investitore e Stato (Isds), inclusi nel Tpp come nel Ttip euro-statunitense, e che prevedono «l’obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi». Un principio apparentemente sensato, ma come si sa la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. «Immaginate – osservano Stiglitz  e Hersh – cosa sarebbe successo se tali disposizioni fossero state in vigore quando sono stati scoperti gli effetti letali dell’amianto. Invece di far cessare l’attività e costringere i produttori a risarcire coloro che erano stati danneggiati, secondo l’Isds, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i propri cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte – prima, per pagare i danni alla salute causati dall’amianto, e poi per risarcire i produttori per la perdita dei profitti quando il governo è intervenuto per regolamentare un prodotto pericoloso». Difficile pensare sia questa la strada giusta per un commercio mondiale davvero più libero e, soprattutto, più sostenibile.