I risultati di un’indagine condotta su 16mila persone in 7 paesi Ue da Cnr e due università

Inquinamento, agricoltura e allevamenti sono tra i principali responsabili ma non lo percepiamo

«Le cause di questa falsa percezione dei cittadini vanno dalla scarsa informazione che la scienza e le pubbliche autorità forniscono al pubblico, all’aumento di notizie non controllate sui social media che causano, a loro volta, una sempre più manifesta sfiducia nella scienza cosiddetta ufficiale. Nel caso specifico assume inoltre importanza lo stereotipo della campagna quale luogo ideale in cui vivere e depositario di importanti valori sociali e di tradizione»

[20 Gennaio 2021]

La distanza tra rischi effettivi e percepiti è spesso molto grande quando si parla di tematiche legate all’ambiente e allo sviluppo sostenibile, come dimostra da ultimo uno studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr con le Università di Urbino e Vienna, che ha rivelato l’errata percezione riguardo alle principali cause dell’inquinamento atmosferico da PM2.5.

Nel 2018 l’esposizione al particolato fine (PM2.5) ha causato circa 417.000 decessi prematuri in 41 paesi europei (circa 379 000 dei quali si sono verificati nell’Ue-28), e in questo contesto l’Italia si conferma uno dei Paesi con le performance peggiori, con 52.300 vittime da PM2.5. È dunque molto importante far capire alla cittadinanza, a livello nazionale come in quello europeo, da dove arrivi questa forma d’inquinamento atmosferico.

Se infatti a livello scientifico i dati a disposizione sono piuttosto robusti, i cittadini spesso guardano alla fonte sbagliata. In quanti casi le sindromi Nimby e Nimto, ad esempio, vengono scatenate dalla contrarietà ad un insediamento produttivo – che si parli di fonti rinnovabili o impianti utili all’economia circolare – per difendere la vocazione del territorio locale alle produzioni agroalimentari di qualità? Bene, è utile ricordare che nessun pasto è gratis e anche le filiere agricole e zootecniche sono fonti d’inquinamento, ben più elevato di quanto lasci intendere il comune sentire.

Attraverso lo studio Public perception of air pollution sources across Europe, i ricercatori hanno intervistato oltre 16.000 cittadini di Italia, Austria, Belgio, Germania, Polonia, Svezia e Regno Unito sono stati intervistati per rispondere su quali settori rappresentassero, a loro parere, la principale causa di inquinamento dell’aria. Cinque opzioni fra cui scegliere: agricoltura e allevamento, riscaldamento domestico, rifiuti, industria, traffico veicolare. Ma le risposte sono state più sbagliate che giuste.

«Con limitate differenze fra le tipologie di intervistato e di cittadinanza, i due settori indicati dagli intervistati come principali responsabili dell’inquinamento dell’aria sono stati di gran lunga industria e traffico veicolare, una percezione errata – dichiara Sandro Fuzzi del Cnr-Isac – Le filiere di agricoltura e allevamento sono in realtà le principali responsabili di emissioni di ammoniaca la quale, una volta emessa nell’aria, si trasforma in sale d’ammonio, ovvero la componente dominante del PM2.5, le cosiddette polveri sottili, responsabili degli effetti più gravi dell’inquinamento atmosferico sulla salute».

E a livello italiano qual è la situazione? Nel nostro Paese la qualità dell’aria che respiriamo è migliorata molto negli ultimi trent’anni, ma rimangono tante criticità ancora da recuperare. Soprattutto sui settori della mobilità e del riscaldamento, ma anche qui gli impatti di agricoltura e allevamenti restano in primo piano.

Secondo gli ultimi dati Ispra disponibili dal comparto arriva il 7% delle emissioni nazionali di gas serra e oltre il 90% delle emissioni di ammoniaca, ed in entrambi i casi il contributo degli allevamenti (80%) è determinante. Per quanto riguarda in particolare il PM2,5, da un’indagine condotta lo scorso anno dall’Istituto insieme a Greenpeace emerge come il settore più inquinante sia il riscaldamento residenziale e commerciale – responsabile del 36,9% delle emissioni totali di PM2,5, primarie e secondarie –, seguito dagli allevamenti (16,6%), dai trasporti stradali (14%), dall’industria (10%) e da altri tipi di trasporti (7,8%), mentre in fondo alla classifica risultano l’agricoltura (4,4%) e le produzioni energetiche (2,5%).

Al netto dunque delle singole peculiarità nazionali, perché i cittadini hanno una percezione così distorta delle cause che stanno dietro la cattiva qualità dell’aria che respirano?

«Lo studio – osserva Fuzzi – ha anche ipotizzato le cause di questa falsa percezione dei cittadini. Queste vanno dalla scarsa informazione che la scienza e le pubbliche autorità forniscono al pubblico, all’aumento di notizie non controllate sui social media che causano, a loro volta, una sempre più manifesta sfiducia nella scienza cosiddetta ufficiale. Nel caso specifico assume inoltre importanza lo stereotipo della campagna quale luogo ideale in cui vivere e depositario di importanti valori sociali e di tradizione».