Ispra, ancora squilibri negli impianti per gestire i rifiuti urbani mentre l’export cresce

«Vi sono regioni in cui il quadro impiantistico è molto carente o del tutto inadeguato». In attesa del Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, accanto ai piani regionali

[17 Dicembre 2020]

Nonostante un lieve calo nella produzione di rifiuti urbani, che nel 2019 ha segnato uno -0,3% sull’anno precedente, il rapporto Ispra pubblicato oggi mostra chiaramente quanto siano forti le difficoltà a gestire la spazzatura che produciamo nelle nostre case una volta suddivisa nei tanti sacchetti colorati della raccolta differenziata. Il problema è sempre lo stesso: gli squilibri nella dotazione impiantistica necessaria a valle, che la programmazione politica rinuncia ad affrontare di fronte al montare delle sindromi Nimby (quando direttamente non le cavalca, cadendo nella sindrome Nimto).

Come dettaglia l’Ispra, nell’ultimo anno ogni cittadino italiano ha prodotto circa 500 chilogrammi di rifiuti urbani: complessivamente si tratta di 30 milioni di tonnellate, a fronte di una produzione totale di rifiuti pari a oltre 173 milioni di tonnellate, contando gli speciali. Questo significa che i pur timidi obiettivi stabiliti nel 2013 dal Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti continuano ad essere rispettati: per il periodo 2010- 2019 si registra infatti una variazione percentuale pari a -8% nel rapporto RU/PIL. Anche la raccolta differenziata è cresciuta (+3,1%) attestandosi al 61,3% della produzione, avvicinandosi così al target del 65% che avrebbe dovuto essere raggiunto nel 2012. E poi?

Il 21% dei rifiuti urbani è smaltito in discarica (-3,3% sul 2018, anche se nel Centro Italia i conferimenti sono cresciuti del +19,4%), il 18% è incenerito (+1,4%) mentre l’avvio a recupero di materia tocca il 50%: più nel dettaglio il 21% va agli impianti che recuperano la frazione organica da RD (umido+verde) e oltre il 29% agli impianti di recupero delle altre frazioni merceologiche della raccolta differenziata (sostanzialmente imballaggi).

Il problema è che lungo l’intera filiera industriale gli impianti per gestire i nostri rifiuti sono pochi e con presenze squilibrate tra i vari territori. Nel 2018 erano operativi 646 impianti di gestione dei rifiuti urbani, e nonostante il lieve aumento registrato nel 2019 (658 impianti) permangono carenze e forti squilibri territoriali: ci sono 355 impianti al Nord, 121 al Centro e 182 al Sud. «Va rilevato – osserva l’Ispra – che l’aumento della raccolta differenziata ha determinato negli anni una crescente richiesta di nuovi impianti di trattamento, soprattutto per la frazione organica, ma non tutte le regioni dispongono di strutture sufficienti a trattare i quantitativi prodotti». Ma non va meglio per le altre frazioni: dal 2013 ad esempio sono stati spenti 11 inceneritori, 7 dei quali sono nelle regioni del Centro (dove non a caso cresce l’uso della discarica).

Non c’è dunque da stupirsi se l’esportazione dei rifiuti interessa ormai il 2% dei rifiuti urbani prodotti a livello nazionale, in crescita del 10,8% rispetto al 2018 (quando già l’incremento sul 2017 era stato del 31%) e diretti soprattutto verso Austria, Spagna, Portogallo, Bulgaria e Germania. La percentuale può sembrare bassa ma in realtà si tratta di circa 515 mila tonnellate di rifiuti, di cui 936 tonnellate sono pericolosi.

Quest’incapacità di gestione non è a costo zero, ma anzi presenta un conto salatissimo in termini di impatti ambientali (si pensi al trasporto su camion) ed anche economici (il costo medio nazionale annuo pro capite di gestione dei rifiuti urbani è pari a 175,79 euro/abitante, nel 2018 era 174,48). Anche perché quella dell’export è solo una piccola parte del turismo dei rifiuti: sia perché questi dati non comprendono le materie prime seconde, che perdendo la qualifica di rifiuto vengono esportate come prodotti, sia perché i trasferimenti tra regioni italiani sono in grado di aprire una prospettiva molto più completa sul fenomeno.

«Vi sono regioni – dichiara nel merito l’Ispra – in cui il quadro impiantistico è molto carente o del tutto inadeguato». Ad esempio in Campania solo il 25,5% dell’organico raccolto con la differenziata viene avviato a recupero sul territorio regionale, il Lazio invece si attesta al 28,3%. Più in generale l’Ispra osserva che «l’analisi dei dati limitata al solo ambito regionale, in molti casi, può essere fuorviante», perché i rifiuti urbani che passano dagli impianti intermedi di trattamento – tipicamente i Tmb – poi diventano speciali che vengono inceneriti, smaltiti in discarica o recuperati in impianti localizzati fuori regione. Alcune stime nel merito le ha fornite Utilitalia, documentando che 2,7 mln di ton/anno di rifiuti urbani vengano gestite fuori regione, comportando tragitti in camion per 49 milioni di km, 31mila ton di CO2 in più e 75 mln di euro di rincaro Tari. Ampliando il quadro d’osservazione a tutti i rifiuti speciali – escluse le tratte fuori confine – si arriva a 1,2 miliardi di km percorsi ogni anno dalla nostra spazzatura.

La colpa sia chiaro non sta certo nei 130 Tmb presenti su suolo nazionale, dai quali passa il 31% dei rifiuti urbani che produciamo (per il 79% rifiuti urbani indifferenziati). Occorre però prendere atto che da questi impianti intermedi solo 125mila tonnellate di materiali in uscita (l’1,4% del totale) vengono avviate a riciclaggio: il dato registra un incremento del 25,8% rispetto al 2018, da imputarsi ai maggiori quantitativi di carta e cartone e legno avviati a riciclaggio, ma ad oggi rappresentano prevalentemente un trampolino per inceneritori o discariche, spesso lontane dal luogo di produzione dei rifiuti.

La responsabilità dei deficit impiantistici sta nella mancata programmazione che spetta all’attore pubblico, ovvero le Regioni e presto lo Stato. In sintesi, le nuove norme europee sull’economia circolare prevedono obiettivi di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio dei rifiuti urbani al 55% entro il 2025, al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035. Per i rifiuti da imballaggio, si prevede un riciclo del 65% entro il 2025 e del 70% entro il 2030 per tutti i tipi di imballaggio, con obiettivi differenziati per materiale. Per l’Italia significa migliorare considerevolmente le performance attuali. Come? Un tassello fondamentale sta nell’atteso Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, che si affiancherà ai piani regionali. Entro 18 mesi sapremo se riuscirà davvero a definire come chiudere il cerchio dell’economia circolare.